“Ascolta, sullo schermo metto donne carine, principalmente nude. Ti crea qualche problema?”
Joe Eszterhas
“La bellezza non è tutto. È l’unica cosa”
NWR – The Neon Demon
“sei un gran figlio di puttana. Prima mi eccitavi. Adesso provo solo repulsione. Non hai alcun mistero. Tutto quello che sei è tra le mie gambe”
Zalman King – Two Moon Junction
Il titolo al quale ci si è riferiti con più insistenza come genoma per l’ultimo film di Nicolas Winding Refn è Showgirls. Associazione ingannevole come quelle che coinvolgono tutte le superfici evidenti. Il cinema di Veroheven, al di là dell’ossessione per i bulbi oculari, è quello meno affine alla dimensione visuale di Refn, proprio perché i continui slittamenti di senso che attraversano i film del regista di Black Book, sfondano letteralmente una superficie dentro l’altra, quando al contrario l’autore danese rimane saldamente ancorato all’evidenza tecnica e materiale del Décor, cataratta oltre la quale non è possibile spingersi.
Da Showgirls allora, così come da Basic Instinct e Sliver, Refn desume l’attenzione per gli schermi e gli specchi che abitano la scrittura di Joe Eszterhas, quasi sempre deliberatamente falsa e concepita come un cortocircuito all’interno del sistema Hollywoodiano. Ma quella che per lo sceneggiatore di origini ungheresi è una continua messa in abisso dello sguardo, diventa per Refn “atto del guardare” generico, mai selettivo e senza alcuna finalità. The Act of Seeing è tra l’altro il titolo di un costosissimo volume curato dallo stesso Refn e che raccoglie i poster più rari del cinema da lui feticisticamente amato; approccio che presume di elevare ad un livello artistico ed estetico circoscritto l’anarchia del cinema di genere.
Questo dissidio è forse per la prima volta percepibile nel cinema del regista danese, perché The Neon Demon sembra incorporare e poi rifiutare nel modo più onesto possibile per un autore disonesto, i principi sui quali si fonda. Se lasciamo da parte le suggestioni femministe che Refn ama citare e la sensazione di avere a che fare con una sorta di personalissimo Kill Bill, nel descrivere una realtà industriale fagocitante, ad occupare quello spazio intermedio è proprio la presenza di Elle Fanning. Jesse è un agnello sacrificale, un personaggio fuori posto che non si adatta alle regole, neanche quelle stabilite dal cinema di Refn. Il cineasta danese odia la sua purezza e in qualche modo la sollecita per allestirne la messa a morte.
L’incorporamento, oltre l’ingombrante superficie cinefila che mette insieme di tutto da Jean Rollin a Mario Bava, si manifesta a un certo punto come rigetto di quella stessa bulimia visuale.
Dopo esser stata divorata, di Jesse rimane un occhio vomitato, bulbo oculare che suggerisce un cinema dell’occhio come regno opaco di assoluta apparenza, corpo estraneo cannibalizzato e improvvisamente sottratto al controllo combinatorio del suo autore. Non si può fare a meno di provare profonda empatia per Jesse, braccata da uno sguardo che vuole inglobarla. Il personaggio interpretato da Elle Fanning sembra incarnare la sorgente a cui lo stesso Refn attinge per costruire il suo cinema fatto di campioni e di brandelli. A differenza della coppia Cattet-Forzani, legata ossessivamente al montaggio come arte del possibile, The Neon Demon sembra riproporre quella stagione “grafica” che oltre ad alcuni titoli scritti da Joe Eszterhas, rievoca il cinema prodotto e talvolta diretto da Zalman King, il cui erotismo di superficie trova una riproposizione nell’esoterismo stilizzato di queste vagine ctonie raffigurate come motivi al neon.
Refn non si separa dall’esuberanza retinica dell’advertising a cavallo tra gli ottanta e i novanta. Quando cerca di staccarsi dalla superficie allora osserva le spaccature del deserto californiano, fotografando una wasteland a cui spettano i titoli di coda. Non sono ferite nè cicatrici, ma monumenti levigatissimi, fermi all’occhio di Ridley Scott o di Bettina Rheims, quando filmavano una splendida Carole Bouquet nello spazio geometrico di un sogno.
Leggi anche: Drive di Nicolas Winding Refn | Valhalla Rising di Nicolas Winding Refn