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The Rover di David Michod: la recensione

Le città fantasma di The Rover, il nuovo film di David Michod ha molto in comune con i paesaggi del western de-genere di Questi, Fulci, Canevari. La violenza del film è come una musica tensiva e invisibile, si muove sottopelle, pervade ogni cosa. Non sembra esserci via di fuga in questo mondo ormai alla deriva

Dopo il recente These Final Hours di Zak Hilditch, gli sconfinati e brulli territori australiani si fanno nuovamente teatro di uno scenario apocalittico. È una location polverosa quella di The Rover, oppressa dal caldo asfissiante che fa sudare la pelle grassa di volti bruciati dal sole e segnati dal dolore e dalla sete. Una location che sembra ispirare inconsciamente storie di vite consumate, umanità bruciate, ridotte all’osso, aride e spaccate come canyon prosciugati. Un’iconografia quindi che rimanda inevitabilmente al genere western.

Il film di David Michod si può infatti definire un neo-western apocalittico e intimista, dove universale e particolare si incontrano e coincidono in questi luoghi desertici. Ma la terra da raggiungere e conquistare questa volta non è quella dell’ovest selvaggio, ma un territorio interiore, la propria umanità ormai persa, da riacquistare o seppellire per sempre nella sabbia pietrosa del deserto australiano.

Come già in Animal Kingdom, Michod esplora e racconta la violenza in modo minimale e tensivo, la si percepisce nella sua costanza, onnipresente, invadente come il caldo e come la luce accecante che si abbatte sugli spazi di un’umanità destinata al fatale regresso: violenza sottesa, tangibile in quella base musicale stridula e piatta. Paesaggi che si fanno primordiali, affascinanti e terribili al contempo, ormai non più domabili dalla mano prepotente dell’uomo.

In uno sviluppo narrativo on the road, le uniche colonie della civiltà sopravvissute alla catastrofe, in cui si imbattono i due protagonisti, sono luoghi corrotti in cui si consuma ogni sorta di perversione, città fantasma e angosciose che solo certi film western de-generi all’italiana hanno saputo rappresentare: Matalo! (Canevari), Se sei vivo spara (Questi), I quattro dell’apocalisse (Fulci).

Il solitario ed enigmatico Eric (Guy Pearce) e il giovane e ingenuo Rey (Robert Pattinson) iniziano il loro viaggio l’uno alla ricerca della sua automobile rubata e l’altro alla ricerca del fratello. È l’incontro tra una personalità disillusa e ormai priva di emozioni con l’ultimo superstite di un’umanità che ancora crede in Dio e nell’amore disinteressato e fraterno. La personalità più forte finirà con l’influenzare quella più debole, spingendola ad un atto estremo proprio mentre, incredibilmente, sembra germogliare nuovamente un sentimento genuino nell’animo indurito di Eric. Ma ogni speranza è vana, non sembra esserci via di fuga in questo mondo ormai alla deriva. Il film si chiuderà con la definitiva rivelazione ed il seppellimento dell’ultimo sentimento d’amore, in un’immagine dallo struggente valore simbolico. È la corruzione estrema, la definitiva morte della speranza, dell’amore, di Dio. Film potente e innovativo che consacra Michod tra gli autori più interessanti dell’attuale panorama cinematografico.

RASSEGNA PANORAMICA
Voto
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Andrea Schiavone, appassionato di cinema ha deciso di intraprendere studi universitari in ambito cinematografico. Laureatosi in Arti e Scienze dello Spettacolo alla Sapienza di Roma ed attualmente studente magistrale in Cinema, Televisione e New Media alla IULM di Milano.
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