mercoledì, Dicembre 18, 2024

The silent twins di Agnieszka Smoczyńska: recensione

Le gemelle Gibbons, nonostante l'origine storica e giornalistica della loro vicenda, diventano materia personale di Agnieszka Smoczyńska, molto vicine a quell'ecologia del femminile che ha caratterizzato fino ad ora il suo cinema feroce e ferale, dove creature sul bordo della realtà, emergono dall'ombra per riscriverne i codici.

Le sorelle June e Jennifer Gibbons sono nate e cresciute ad Haverfordwest in Galles, dove hanno trascorso l’adolescenza fino agli inizi degli anni ottanta, prima di esser rinchiuse a Broadmoor, il più antico ospedale psichiatrico di massima sicurezza in Inghilterra.
Barbadiane di seconda generazione, rifiutano l’uso della parola fin dall’infanzia per isolarsi in un mondo creativo condiviso di cui sono rimasti numerosi scritti conservati nei loro diari e costituiti da frammenti poetici, fiabe, incursioni narrative e altre forme. Marjorie Wallace, giornalista investigativa, stabilisce un contatto affettivo molto forte con le due gemelle, seguendole durante gli undici anni di detenzione che causeranno la morte di Jennifer a trent’anni d’età. Accusate di una serie di furti e alcuni atti di vandalismo, vivono costantemente sul bordo, alternando energie distruttive e un’irrefrenabile ansia creativa, come risultato di un rapporto simbiotico tra amore e odio, dove il mondo esterno può entrare solo attraverso la mediazione e la trasfigurazione letteraria.

La regista polacca Agnieszka Smoczyńska per il suo primo film in lingua inglese, collabora con la sceneggiatrice Andrea Seigel e con la stessa Wallace, autrice di un libro sulle Gibbons, qui in veste di produttrice esecutiva. Ma più che al rigore documentale, è interessata a far reagire i frammenti letterari prodotti dalle gemelle, costruendo intorno a quelli una convergenza di strategie narrative, sviluppate attraverso media eterogenei.

Gli inserti più evidenti rispetto alla traccia biografico-finzionale sono i segmenti stop motion realizzati da Barbara Rupik, mentre l’espansione dello spazio scenico è spesso affidata al 3D di Albert Coen. La stessa colonna sonora originale prende forma dalle liriche scritte dalle Gibbons, sulle quali Marcin Macuk e Zuzanna Wronska hanno costruito una serie di canzoni pop con il compito di rivelare la dimensione interiore delle protagoniste.

Smoczyńska torna in parte a frequentare l’universo pop di The Lure, contaminando il suo cinema con interpolazioni di genere, che vanno dal musical al cinema d’animazione, fino a questo momento confinato nello spazio dei titoli di testa.

Da questa dimensione, taglia fuori quasi tutte le motivazioni sociopolitiche che avrebbero causato la vita introflessa delle Gibbons, seguendo un percorso non dissimile dal precedente Fuga, nella disamina di un’implosione identitaria che consideri l’oblio e la separazione dal mondo normato, come ricerca di ostinata illogicità rispetto alla logica del reale.

Il corpo e la presenza aliena di Gabriela Muskała che in Fuga svelava il volto nascosto della famiglia cattolica polacca dal bordo della follia, trova una corrispondenza nelle attitudini di June e Jennifer e nel loro isolamento dalla collettività. Opera quindi un rovesciamento disturbante rispetto alle istanze biografiche, che sarebbe stato mitigato da una maggiore contestualizzazione didascalica. Individua quindi il contrasto tra abiezione e appartenenza, con quella forza capace di travolgere anche una famiglia amorevole, senza spiegazioni ulteriori che non siano quelle della necessità.

L’empatia non viene quindi forzata dalla definizione chiara del trauma, ma deve emergere con maggiore difficoltà anche per lo spettatore, dalla contemplazione di due identità ostinatamente libere e amorali.
Smoczyńska può allora concentrarsi sulla forza fonetica e aurale dello slang apolide sussurrato dalle Gibson, sospeso tra lingua inglese e sopravvivenze barbadiane, sulla relazione tattile con gli oggetti, la carta e lo spazio ridotto della loro stanza. Tutto il resto è un’espansione di questo mondo condiviso, dove il confine tra esperienza e rielaborazione fantastica è membrana fragile.

Lo stop motion ha una funzione doppia; dar forma alle storie fantastiche delle sorelle e svelare l’avvitamento tra amore e crudeltà che le Gibbons vivono senza distinzione.

Barbara Rupik, giovane animatrice nata a Pyskowice e cresciuta a Zabrze, infonde agli splendidi segmenti animati tutta la ricerca organica che caratterizza il suo lavoro, sempre in bilico tra pittura, materia e objet trouvé. In questo caso ravviva un mondo di pupazzi e animali, regolato dalle leggi della decomposizione, dove morte e deformità intrattengono una relazione stretta.

Sembra quasi che l’universo infantile del primissimo Lynch venga investito di colore, tridimensionalità e soprattutto di quel surrealismo alla Von Kleist che attraversa alcuni animatori dell’est, da Jiří Barta a Jan Švankmajer. Tra le fantasie oscure, anche la messa in scena di un’inquietante versione rovesciata di Cuore di Cane, con un pointer sacrificato per far sopravvivere un pargoletto affetto da malformazione cardiaca congenita.

Il mondo surreale e crudele delle Gibbons è quindi fatto di cuori strappati, famiglie dilaniate dal dolore, capricci della natura in cerca di un riscatto oppure destinati ad una fine atroce.

Ciò che lega queste fiabe dall’anima nera è una continuità interiore con lo spazio immaginifico dell’invenzione letteraria. Tutto ciò che attiene al racconto di formazione viene allora rovesciato dentro al viaggio attorno alla loro camera, nella necessità di farsi esperienza per poter riempire la pagina vuota, inclusi i desideri sessuali, le fantasie di successo, il consumo di droghe, le piccole attività criminali, il troppo amore reciproco che si tramuta in odio distruttivo.

Un legame sotterraneo con la psiche dei due personaggi viene stabilito anche dalle musiche, non solo per via delle canzoni pop costruite come emanazione dell’universo mitopoietico delle Gibbons, a conferma di un progetto di vocazione mista e collettiva, ma anche dall’impiego di alcuni inserti poliritmici che sembrano far emergere l’essenza caraibica indicibile delle due gemelle; una forza terrestre ancorata alle proprie radici che preme dal sottosuolo e che alimenta la loro stessa follia rispetto al mondo occidentale che le accoglie.

Questa alienazione radicale Smoczyńska ce la mostra attraverso i codici sonori, aurali, musicali, linguistici, ma anche descrivendo la qualità relazionale con il nucleo famigliare. Amore inespresso e distacco caratterizzano i sentimenti delle gemelle, in questo isolamento che colpisce prima di tutto i parenti più vicini. I rituali comuni della condivisione, dalle cene festive alla televisione serale, sono osservati a distanza da Jennifer e June, in una separazione incolmabile dello spazio interiore che diventa fisica e visiva, come accadeva nell’architettura di interni descritta in Fuga.

Sono quattro le attrici che interpretano le due Gibbons, durante l’infanzia le intense Leah Mondesir-Simmonds ed Eva-Arianna Baxter, descritte da Smoczyńska con un’immersione estrema nei loro sussurri, nei giochi rappresentativi, nella relazione osmotica con le pagine del diario, nel procedere appaiate, con le teste chine e protette dal mondo esterno come le gemelline di Diane Arbus.

All’inizio della post-adolescenza con i corpi e i volti di Letitia Wright e Tamara Lawrance, attraversate da un’erotismo febbrile e urgente al confine con la brutalità e l’abuso.

Le Gibbons, nonostante l’origine storica e giornalistica della loro vicenda, diventano materia personale della regista polacca, molto vicine a quell’ecologia del femminile che ha caratterizzato fino ad ora il suo cinema feroce e ferale, dove creature sul bordo della realtà, emergono dall’ombra per riscriverne i codici.

The Silent Twins di Agnieszka Smoczyńska (Polonia, Stati Uniti, Regno Unito, 2022)
Interpreti: Letitia Wright, Jodhi May, Jack Bandeira, Treva Etienne, Tamara Lawrance, Declan Joyce, Amarah-Jae St Aubyn, Rita Raider, Jordan J Gallagher, Ian McQuillan-Grace
Fotografia: Jakub Kijowski
Sceneggiatura: Andrea Seigel
Montaggio: Agnieszka Glinska

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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