Ruben Östlund: Forza Maggiore. E’ questa l’associazione che faranno i più, memori della promessa che il regista svedese ha inevitabilmente sancito nel 2014, quando a Cannes primeggiava nella sezione Un certain Regard proprio con quel film. A parlare era il suo lavoro, la promessa quella di farsi carico di tutta una tradizione cinematografica che è stata ed è, in primo luogo, un tipo di sguardo sull’uomo e sul mondo. Citare Bergman è quasi superfluo e ridondante, seppur dovuto; che l’eredità raccolta sia ben più ampia e sintetizzabile entro una maniera europea di fare cinema lo conferma il nuovo The Square, Palma d’Oro, candidato per la corsa agli Oscar.
Saturo di contenuti e citazioni (Buñuel su tutti), tesi e contraddizioni, traghetta a un livello superiore quella stessa riflessione che in Forza Maggiore prendeva sviluppo in seno alla socialità ristretta del nucleo familiare: sulla contraddittorietà della psiche umana, sulla difficoltà di agire coerentemente con i propri principi, sulle conseguenze micro e macroscopiche di scelte e azioni, consce o governate dall’istinto che siano.
Attorno all’originale motivo di base, ovvero l’arte contemporanea nella duplice accezione di interazione triangolare tra oggetto, museo e spettatore, da una parte, e di performance, dall’altra, prendono campo una serie di tematiche che dialogano, confliggono e trascendono questo motivo, dando luogo a quello che è a tutti gli effetti un film di irriverente denuncia sociale, oltre che, grazie a un uso intermittente dell’ironia, analisi ossimorica, spietata e pietosa insieme, degli individui che costituiscono la società.
Il Quadrato, “santuario di fiducia e altruismo”, struttura vuota che aspetta di essere riempita di senso da chi vorrà entrarvi col proposito di mettersi a nudo di fronte a se stesso e agli altri, sarà l’installazione cardine della mostra che Cristian, direttore e curatore di museo, sta allestendo.
Se il proposito è quello di portare la vita autentica dentro l’opera d’arte, pur vero è che la vita al di fuori di essa non è circoscrivibile entro forme geometriche; i confini tra morale e amorale, giusto e ingiusto, sono ambigui; il reale è fluido e indomabile. Subentra l’imprevisto, e i progetti, così come le convinzioni, vanno in frantumi.
Un furto subito, la vendetta, la coraggiosa e spregiudicata quanto ingenua rivalsa di un bambino; campagne pubblicitarie, giornalisti, artisti che sfuggono platealmente al controllo; l’affetto sincero per le figlie insieme all’incapacità di amare. Questi gli ingredienti per il cortocircuito di un protagonista sempre in bilico tra lo slancio verso il prossimo e il fascino che il potere esercita su di sé e su chi lo circonda, tra la volontà di abbattere le convenzioni che abituano all’indifferenza e il pregiudizio.
Östlund, a metà tra demiurgo e membro partecipe di quella deflagrazione verso cui lentamente si avviano le marionette del teatro borghese, asseconda questo cortocircuito lasciando che naturalmente si rifletta sulla struttura stessa del film, teso, aggrovigliato, interrogativo più che risolutivo.
Mirata si rivela la scelta della colonna sonora. Se la musica dei Justice accompagna una delle scene madri (“stiamo andando a fare giustizia” recita un collaboratore di Cristian, profezia dell’esatto contrario), il tema ricorrente è invece la miracolosa voce di Bobby McFerrin nella sua Improvisació n°1, live che è pura essenza della performance d’arte.
E forse proprio nell’improvvisazione, suggerisce il finale del film, sta il seme del riscatto umano.