Erin Harrington, nel suo volume Women, Monstrosity and Horror Film introduce la definizione di Gynaehorror per aggregare modi estetici, rappresentativi e concettuali legati a quel cinema di genere che attraverso la lente orrorifica, affronta tutti gli aspetti legati alle varie declinazioni di riproduttività femminile. Si tratta di una controlettura dell’esistente, che senza riabilitare prospettive ideologicamente codificate dallo sguardo dominante, fa il tentativo di rilevare all’interno di un sotto-genere, possibilità e aperture alternative agli stereotipi rappresentativi del mostruoso femminile.
Se quindi tra le potenzialità del Body Horror c’è anche quella di evidenziare le forme di esclusione ed elisione dell’indicibile, attraverso una radicale adozione della corporeità come strumento politico, per Harrington la riformulazione del corpo come categoria instabile e metamorfica, è una sfida continua alla coerenza identitaria e un invito alla rottura di quegli argini che limitano l’espressione di nuove forme di vita, secondo un tracciato che procede da Deleuze/Guattari fino a Braidotti.
Il corpo durante il processo riproduttivo è tutto ad eccezione di un’entità lineare e fissa e nell’articolata dissertazione c’è spazio anche per l’invecchiamento come categoria corporea e attoriale, che nella storia del cinema mainstream statunitense è diventato vero e proprio discrimine per espellere le attrici più anziane dall’ecosistema culturale. Laddove siano presenti personaggi anziani, il loro corpo viene mistificato e il desiderio non riproduttivo presentato come qualcosa di trasgressivo e abietto.
Pubblicato nel 2016 da Routledge, il saggio non integra il più recente dialogo tra il “femgore” letterario sviluppato da autrici come EK Sathue, Susan Barker, Mona Awad, Eliza Clark, Monika Kim e quello cinematografico. Opere come Relic di Natalie Erika James, Raw e Titane di Julia Ducournau, Hatching di Hanna Bergholm, Huesera di Michelle Garza Cervera, Piggy di Carlota Pereda, Booger di Mary Dauterman, birth/rebirth di Laura Moss, affrontano aspetti come l’invecchiamento, la mutazione del concetto di maternità, la sovversione di quei codici percettivi che definiscono la relazione tra corpo, identità, sessualità, rappresentazione fino a quella che Carol J. Adams, in un radicale saggio di femminismo vegano pubblicato negli anni novanta, definiva come politica sessuale della carne.
The Substance, secondo film di Coralie Fargeat potrebbe inserirsi perfettamente nel contesto analitico tracciato da Erin Harrington, per il modo in cui la regista francese restituisce, secondo le sue stesse intenzioni, un’immagine allo specchio della “mentalità misogina contemporanea”, attraverso il contrasto tra la rappresentazione del corpo femminile incistata nelle cornici mediatiche, e l’essere corpo, ovvero la possibilità di percepirsi in quel processo dinamico che ne determina la finitezza.
Non è certamente un film sull’ageismo, ma i presupposti politici sarebbero quelli, mentre mezzi e immaginario puntano ad una sintesi densissima, in termini quantitativi, di quella performatività che ha caratterizzato parte del cinema horror degli ultimi quarant’anni. Questa, salvo eccezioni, nel cinema coevo è radicalmente neutralizzata dalla ricombinazione di frammenti pop riconoscibili, e riutilizzabili attraverso l’influenza che esercitano le numerose profilazioni interrelate anche sul “gesto” culturale apparentemente più selvaggio. Equitemporalità e accessibilità delle fonti, possono trasformare in un petardo bagnato, piccoli film dall’intenzione dinamitarda.
La totale avversione di Fargeat nei confronti della CGI è testimoniata dal lavoro di Pierre-Olivier Persin, make-up artist di talento e designer per tutti gli effetti speciali di The Substance.
I corpi di Demi Moore e Margaret Qualley, si sono dovuti confrontare con il silicone, l’argilla, la plastilina, varie forme di prostetica, body suits di lattice, patendo modalità spesso difficili e traumatiche, molto simili al semi-soffocamento di Maxine Minx quando le viene applicato un calco di gesso nell’ultimo film della trilogia X diretta da Ti West.
Dimensione fisica che in qualche modo cerca di recuperare lo spirito del teatro organico di Stuart Gordon, per la forzatura parodica di tutte le cornici disponibili, da quella pulp alla rilettura post-moderna dello spazio rappresentativo.
Per fare questo Fargeat sceglie la strada più semplice, virtualizzando il set in uno spazio chiuso che possa alternativamente riferirsi ad un magma cinematografico impegnato a mettere insieme Kubrick, Lynch, De Palma, Cronenberg, Carpenter, il Body Horror degli anni ottanta, l’ultra-gore giapponese dei novanta, il vestito punk della Troma più dell’attitudine e molte altre cose.
Non c’è alcuna frattura tra l’appartamento di Demi Moore e il set televisivo dove la star di The Substance sollecita la sua fanbase con un fitness-format nostalgico e old-style come gli esercizi catodici di Jane Fonda. Tutto sembra muoversi nello spazio biogenetico di una clinica estesa e unificata dal cromatismo spinto e asettico della superficie visuale.
Non è certamente necessario introdurre la contemporaneità dei social media per raccontare la schizofrenia identitaria di un presente specializzatissimo eppure violentemente binario, e Fargeat taglia chiaramente fuori tutti i riferimenti visuali al presente, concentrandosi sull’esasperazione grafica di elementi riconoscibili e più vicini al lessico delle graphic novel.
A chi dovesse obiettare che la fantasia gore della regista francese è completamente inattuale, potremmo rispondere che i processi partogenetici messi in scena, includono il set stesso, frutto di successive rimediazioni culturali immerse, come la nostra stessa formazione, nella completa virtualizzazione del passato.
Al contrario, a chi immagina The Substance come un’invettiva politica su “quello che siamo diventati”, verrebbe da dire che il divertente marchingegno assemblato da Fargeat sembra più un innocuo gingillo contaminato qua e là da tentazioni femministe, incapace di ferirci come faceva l’abissale Body Horror che sondava il superamento della mortalità biologica, portando alle estreme conseguenze principi materialisti ed evoluzionisti.
Sembra invece che Fargeat, rispetto all’amorale post-umanesimo multigender dell’ultimo Cronenberg o di Titane, si impegni a rilanciare un semplicissimo assunto barricadero, scivolosamente moralista, anche attraverso le interviste che concede.
L’estremizzazione e il rovesciamento degli standard di bellezza e autorappresentazione a cui le donne sono costrette dalle continue e insostenibili pressioni della società dello spettacolo, servirebbe, nelle intenzioni della regista francese, a defamiliarizzare i presupposti su cui si regge questa stessa politica dell’immagine.
Semplice, diretto, alcuni direbbero “anarchico”, nonostante il battage totalitario con cui il film è stato allineato allo sguardo “critico” prima della sua diffusione, eppure fondato su quei processi di rovesciamento simmetrico dello sguardo di cui parlava Barbara Creed già trent’anni fa, contestando con forza gli stereotipi rappresentativi che attraversavano “I spit in your grave”, il film di Meir Zarchi realizzato con intenti non dissimili dal primo film di Coralie Fargeat.
Più interessanti allora le davvero straordinarie performance di Moore/Qualley, nella lotta estrema con i desideri prostetici della loro tutrice e costrette ad affrontare interminabili sessioni di make up, ingombranti elementi alieni sul corpo, pesanti trasformazioni della loro stessa capacità di tolleranza. Non è un fuori campo, perché le tracce diventano visibili nel loro duello. Una sfida interessante quanto quella di Mickey Rourke in The Wrestler, se mettiamo su un piano intergenerico il continuo sabotaggio percettivo che il corpo mette in atto, rispetto all’azione inesorabile del tempo.
Questo tradimento dell’armonia tra il Sé e la forma fisica progressivamente irriconoscibile è un’immagine tragica che non può essere riconciliata dall’invettiva politica, se non dismettendo totalmente l’apparato spettacolare in cui abbiamo deciso di vivere, artisti inclusi.
Moore e Qualley, e per quanto mi riguarda più la prima della seconda, sono le vere autrici del film, con la loro capacità di mettere in crisi la rappresentazione del mostruoso femminino attraverso un controllo intimo e denso di significati del gesto fisico minimo. Tutta la sequenza in cui Demi Moore si prepara ad uscire con un vecchio amico e non riesce a riconoscersi nei continui riassestamenti e rispecchiamenti del make-up, del vestito, dell’acconciatura, hanno una densità drammatica più spaventosa del freak show costoso desiderato da Fargeat e accordato su una trentina di film già visti.
Mi piace concludere con un piccolo riferimento scovato nel carosello visuale di The Substance.
Qualley in vestaglia che osserva la cicatrice sulla schiena di Moore, ricorda da vicino Arbol de la esperanza mantente firme, il quadro che Frida Kahlo realizzò nel 1946 durante la convalescenza post-operatoria che la costrinse ad indossare un corsetto d’acciaio per otto mesi, vera e propria tortura che peggiorerà le sue condizioni di salute, causandole dolori indicibili alla spina dorsale.
Nel dipinto, il sole e la luna incorporano lo stesso sfondo da due prospettive, notturna e diurna.
Frida è seduta e indossa un costume rosso fuoco della tradizione Tehuana, segno di appartenenza identitaria molto forte, che ricorre spesso nella vita e nell’arte della pittrice messicana.
In mano trattiene un corsetto ortopedico di color rosa e una bandiera con un verso di Cielito Lindo che intitola direttamente il dipinto.
Dietro di lei un lettino d’ospedale, con un corpo nudo appena coperto da un lenzuolo.
Nella sezione solare del quadro, la cicatrice sanguinante sulla schiena della seconda Frida è completamente esposta. La terra riflette in abisso le ferite attraverso le spaccature naturali del terreno. Nella separazione di un corpo che si oppone alla “volontà di vivere” di Frida, quello immaginato e conservato dalla percezione intima della propria identità, indossa ancora i colori fiammanti del Tehuana.
Immagine divisa che documenta il transito continuo di un’identità da un corpo ad un altro, movimento non corrispondente alle rappresentazioni culturalmente orientate per soddisfare lo sguardo.
Fargeat avrebbe potuto realizzare un altro film.
The Substance di Coralie Fargeat (Francia, UK, USA – 141 min)
Sceneggiatura: Coralie Fargeat
Interpreti: Demi Moore, Margaret Qualley, Dennis Quaid
Fotografia: Benjamin Kracun
Montaggio: Coralie Fargeat, Jérôme Eltabet, Valentin Feron