È una terra devastata quella che fa da sfondo ai corpi nel cinema dell’ucraino Myroslav Slaboshpytskiy, a partire da Diagnosis, secondo cortometraggio realizzato dal cineasta di Kiev e ambientato in parte all’interno di una zona dismessa. È proprio in quest’area che Slaboshpytskiy filma una lotta fulminea tra i residenti e le forze dell’ordine come se si trattasse di un numero di danza, osservato in campo lungo e con lo stesso punto di vista di Kubrick quando in Arancia Meccanica metteva in scena il balletto tra Billy Boy e i Drughi.
In Deafness, il corto successivo e il primo ad essere interpretato con la lingua dei segni, lo scenario è quello di una scuola per sordomuti inquadrata dalla strada adiacente, dove Slaboshpytskiy isola in dieci minuti di piano sequenza la stessa relazione violenta tra stato e individuo all’interno di una macchina della polizia dove avrà luogo un brutale abuso.
La persistenza del tempo torna negli spazi immutabili di Chernobyl, teatro di Nuclear Waste, corto di 24 minuti senza dialoghi che osserva dalla stessa distanza la vita rituale di Sergey e Sveta, lui un camionista impiegato in una zona adibita ai rifiuti radioattivi, lei a quella per la decontaminazione. Sono interni fotografati con una luce livida che illumina i colori marcescenti, evidenziati da Valentyn Vasyanovych in Plemya (The Tribe) il primo lungometraggio di Myroslav Slaboshpytskiy che dall’anteprima Cannense del 2014 ha collezionato più di trenta premi, tra cui quello per la migliore opera prima al BFI di Londra e il premio come miglior rivelazione europea assegnato dalla European Film Academy.
Interamente realizzato con la lingua dei segni, The Tribe è interpretato da attori sordomuti non professionisti che con l’impiego di simboli e una mimica dal forte impatto fisico, sostituiscono le consuete dinamiche tra personaggi per raggiungere il confine tra un’immagine dalle qualità tattili e allo stesso tempo astratte. Il regista ucraino non scende a patti con quel tipo di cinema che imposta una distanza minima con i corpi per restituirne il percorso sensoriale, al contrario assume una distanza contemplativa molto simile a quella di Tsai Ming Liang, generando una coesistenza crudele tra orrore e comicità slapstick, senza che questa sia frutto di una pianificazione estetica e facendola fluire come parte dell’azione. In questo senso lo stesso Slaboshpytskiy ha rispedito al mittente qualsiasi tentativo di interpretare le sue scelte come un omaggio al cinema muto tout court se non da un punto di vista attitudinale molto distante dal recupero estetico e semantico, allontanando quindi le letture espressioniste e citando Mack Sennett come possibile connessione con quel periodo, in virtù dell’ipertrofia cinetico-fisica dei suoi film.
L’eliminazione di qualsiasi dialogo e la riduzione di questi alla combinazione di gesti e segni consente a Slaboshpytskiy di descrivere in modo più flagrante il contrasto tra persone rappresentate nella loro nudità e la cancrena che colpisce gli ambienti dove vivono, non dissimile dalla materia nera e sedimentata di Stray Dogs.
E la scuola in The Tribe non è più osservata da una posizione marginale, ma diventa il sistema sociale entro il quale emerge un sottomondo illegale fatto di abusi, sfruttamento ed esercizio tribale del potere, niente di diverso dalla pressione che i traffici mafiosi hanno esercitato sull’Ucraina, ma rimesso in scena con un’intuizione che pur procedendo per estrema sottrazione, diventa improvvisamente iperreale e aderente ad una rappresentazione rituale della violenza.
Gli amplessi, l’aborto senza anestesia di una delle ragazze, gli scontri filmati come momenti di danza, la violenza brutale ripetuta ed ossessiva, come quella cadenzata e inesorabile della sequenza conclusiva, sono osservati dalla stessa distanza, una modalità che ci sembra diversa da quella del cinema “inquadrato” ed entomologico di Ulrich Seidl. In The Tribe la stratificazione che i gesti sono in grado di accumulare, spinge lo sguardo in profondità ed evidenzia la connessione complessa tra più piani di lettura dell’immagine stessa. I corpi sono quindi liberi di agire e attraversare questa porzione di spazio che include già tutti i segni dell’entropia.
E il sottobosco criminale degli studenti sordomuti fa parte di un lavoro di documentazione che lo stesso Slaboshpytskiy porta avanti da moltissimi anni e che ha origine dalle sue esperienze personali, la scuola dove ha girato il film infatti è quella che ha frequentato in giovane età situata di fronte ad un istituto per sordomuti. Si tratta dal primo contatto che Slaboshpytskiy stabilisce con quella realtà, prima come osservazione a distanza e improvvisamente in tutta la sua fisica brutalità attraverso gli scontri violenti che si verificavano per strada tra i ragazzi dei due istituti.
È da qui che nasce la storia di Sergey (Grigoriy Fesenko), del suo arrivo a scuola e della sua progressiva discesa in un mondo parallelo fatto di reati, soprusi, sfruttamento della prostituzione e riti di passaggio basati sulla violenza. Un punto di vista che Slaboshpytskiy decide di mantenere fisso come allineamento alla frontalità immediata e diretta della lingua dei segni ma allo stesso tempo indirizzandolo allo spettatore, parte attiva e complice della crudeltà rappresentata.