La Gallipoli di Russel Crowe, rispetto all’astrattismo magico di Peter Weir, ha caratteristiche molto più concretamente sensoriali; The Water Diviner non ha solo la forza di un cinema di corpi, tra terra, acqua e sangue ma anche il continuo movimento dell’azione avventurosa che connette Storia e racconto fantastico, come in tutto quel cinema che alla fine degli anni trenta trasponeva le pagine di Rudyard Kipling, direttamente o semplicemente ricostruendo quel sentimento tra idealismo e arroganza descritto con chiarezza ne “il fardello dell’uomo bianco”.
Ma Water Diviner non è semplicemente un omaggio ad un cinema che non si fa più oppure alle reinvenzioni di Spielberg/Lucas dell’immaginario RKO, perché si porta dietro una brutale fisicità che in qualche modo tiene insieme tutto il percorso di Crowe fino a questo momento, dialogando con i suoi personaggi tra umanità e forza. Ne risulta un’opera forse sbilanciata, a tratti sopra le righe, ma proprio per questo di incredibile vitalità e sorprendente senso della visione.
La fusione tra war movie, fiaba e racconto d’avventure apre ad una ricca possibilità di innesti culturali che raccontano in modo efficace la complessa posizione identitaria del popolo Australiano, attraverso uno sguardo che non è mai conciliante, anche quando ricorre alla rappresentazione di una Costantinopoli mutuata dai modelli di cui si parlava, ma anche dal sole della provenza di “A Good Year” di Ridley Scott o dall’Irlanda Fordiana di The Quiet Man; uno scambio di segni che trova il punto di contatto nella divinazione come relazione diretta e fisica con gli elementi, non solo il rabdomante Joshua Connor (Russell Crowe) che trova polle d’acqua e riesce con le stesse facoltà a mettersi sulle tracce dei figli dispersi durante il conflitto, ma i fondi di caffè, ovvero le “sciocchezze contadine” (quindi, sempre e comunque legate alla terra) di Ayshe (Olga Kurylenko), il figlio di Connor che ha probabilmente ereditato i suoi poteri, perso tra le rotazioni dei Dervisci.
La rappresentazione dell’elemento magico e divinatorio passa per Crowe attraverso quella degli elementi della natura, come quando protegge i suoi figli da una tempesta di sabbia nell’outback Australiano, raccontando loro una fiaba, in una sequenza potente, fisica e allo stesso tempo legata ad un diverso immaginario; una presenza sensoriale e tattile che apre il film, durante lo scavo di un pozzo, con Connor che si fa quasi sommergere dall’acqua, e che assumerà una forza negativa nelle brutali sequenze di battaglia, dove i tre figli sono rappresentati come carnefici e vittime nello spazio di una sola azione.
Lo stesso scambio tra cultura Turca e identità Australiana, sembra collocarsi al di qua dell’assorbimento coloniale, proprio attraverso quella semplificazione dei segni che qualcuno potrebbe stigmatizzare, affrettatamente, come oleografici; dalle lezioni di Cricket sul vagone ferroviario fino alle differenze culinarie, dove Connor preferisce un uovo sodo alla colazione Turca, sembra che Crowe utilizzi la limpidezza del racconto di avventure e del gioco romantico per mettere in abisso l’arroganza del “fardello” bianco; come Eastwood in fondo, il gladiatore del cinema si serve di un’immagine chiara, ma laicamente possibile e aperta.