mercoledì, Dicembre 18, 2024

The witch di Robert Eggers: la recensione

Prima ancora di Salem, il New England a metà del diciassettesimo secolo accusa più di trecento persone per stregoneria. La maggior parte di loro sono donne. La convivenza con l’idea del demonio è un retaggio europeo e le maggiori afflizioni subite dalle comunità puritane, tra cui i cattivi raccolti o i bambini nati morti, vengono attribuite all’opera del maligno. Il diavolo è quindi una presenza costante e viscerale nella vita quotidiana, spinge i coloni ad una costante vigilanza sui loro stessi rituali e su quelle manifestazioni improvvise che mettono a rischio la coesione del nucleo. Il pericolo della dannazione eterna guida le azioni delle comunità puritane, un terrore totalizzante che esploderà nelle persecuzioni di Salem, durante le quali saranno condannate quasi esclusivamente donne indipendenti e di mezza età vicine ad ottenere il controllo di alcune proprietà terriere, minaccia intollerabile per il sistema patriarcale seicentesco.

Robert Eggers ambienta il suo film sessanta anni prima dei fatti di Salem ed entra nei rituali quotidiani di una famiglia del New England, esiliata dalla comunità di riferimento per quel redicalismo religioso che spinge il patriarca (Ralph Ineson) ad un’interpretazione personale del vangelo. Sulle ragioni del contrasto Eggers rimane volutamente vago, introducendoci di fatto nelle abitudini di un nucleo ortodosso che allo stesso tempo vive una dimensione di confine rispetto ai principi di tutta la società politico-religiosa del tempo. Bandito dalla piantagione, William conduce la moglie Katherine (Katie Dickie) e i suoi cinque figli in una casa allestita ai margini della foresta, pagando il prezzo di una scelta ostinata e solitaria.
Eggers osserva quindi da vicino e con occhio documentale la vita minima dei suoi personaggi, mettendo al centro la visione religiosa del tempo attraverso segni e premonizioni che da soprannaturali diventano esplicitamente politici.

Quando la mano di Dio comincia a farsi sentire attraverso la sua assenza, il mondo animale e quello naturale annientano la resistenza umana decretandone la distruzione.

Eggers stesso, come abbiamo già letto nelle recensioni copia-incolla che circolano in Italia, ha dichiarato in numerose interviste di guardare al cinema di Dreyer, Bresson, Bergman, Kubrick, quando il folktelling del suo film trova in realtà numerosi punti di contatto con certo cinema inglese degli anni settanta (Michael Reeves, Piers Haggard, Robin Hardy, Anthony Shaffer, Jimmy Sangster) sopratutto nel valore allusivo dell’immagine, una certa attenzione ai dettagli, la fascinazione per la cultura pagana e la forza di una ritualità vitalistica che si annida dietro i segni del maligno; poco importa che si serva dei colori desaturati, di immagini dalla compostezza ieratica, di una presunta capacità di giocare con il fuori campo per camuffare i riferimenti al cinema di genere con quella patina “arthouse” a cui si è evidentemente interessato per confezionare un film concepito per i festival.

Gli espliciti riferimenti pittorici, il controllo delle fonti di luce ispirate alle opere di Georges de La Tour, il cielo che rimanda a quelli dipinti da Constable, la relazione tra luce e oscurità desunta dalla pittura olandese e fiamminga del 1600 chiudono il film di Eggers nello spazio di un cinema dell’occhio che non sempre riesce a diventare visione.

Il modo in cui la struttura del racconto popolare mina dall’interno i segni della rivelazione cristiana, rovesciandoli del tutto, assume una connotazione politica attraverso la figura di Thomasin (Anya Taylor-Joy); accusata ripetutamente di aver stabilito un patto con il diavolo, la figlia maggiore di William sarà costretta a liberarsi del padre e della madre per affermare la propria identità con un movimento simile a quello di Sarah Good durante uno dei processi per stregoneria più drammatici, tra quelli che hanno fatto la storia di Salem. Le due donne, di fronte alla grande menzogna del dogma, scelgono la libertà. La prima nella morte e con il rifiuto della religione organizzata, mentre per Thomasin si apre la porta della natura, i cui segni attraversano tutto il film, mediante una relazione che i personaggi stabiliscono di volta in volta con l’acqua, il fuoco, l’aria.

L’obiettivo di Eggers sembra allora più filologico che metastorico, perché in modo del tutto ellittico, lasciandosi alle spalle gli eventi conosciuti più evidenti, ne ricostruisce il senso attraverso i riferimenti visivi e quelli legati alla tradizione del racconto orale, un lavoro di ricerca sicuramente interessante, ma la famiglia a cui si riferisce è quella puritana del 1600, senza quindi stabilire alcuna connessione con il presente.

Come capita sovente nel cinema horror contemporaneo, più o meno suggestivo, più o meno riuscito, tra cinefilia e formalismo non c’è spazio sufficiente per raccontare le ossessioni del nostro tempo, ma neanche per stabilire una relazione vitale tra visibile e invisibile. Eggers, rispetto a quest’ultimo aspetto, si serve di segni evidenti, la cui collocazione sembra alludere alle funzioni dell’immagine surrealista (molti dei segni premonitori) confinata nello spazio inerte dei tableaux vivants, tanto da non stabilire quasi mai una relazione dialettica tra quello che si vede e l’oscurità che nasconde i contorni dell’immagine.

Il suo è un talento combinatorio, come quello di molti cineasti contemporanei che si muovono in un territorio apparentemente sincretico tra passato e presente, ma per il vero “sincretista”, la parola non è la cosa e sopratutto linguaggio e verità non coincidono. The Witch in questo senso è un film pittorico e suggestivo, ma allo stesso tempo rimane incorniciato nello spazio di un cinema lontano, senza farsi mai esperienza interiore veramente dirompente.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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