Documentario sensibile e ricco di spunti quello della regista americana Crystal Moselle, che con The Wolfpack racconta la storia vera dei sei fratelli Angulo, costretti a non uscire di casa per l’intera adolescenza, in preda al senso di onnipotenza di un padre affascinato dal Krishnaismo ed emule della figura suprema del dio indiano traslato però nel ristretto contesto domestico tra i palazzi popolari di periferia nel Lower East Side di Manhattan.
Quello che ci raccontano le vive voci dei fratelli Angulo è il complesso e appassionato sistema di sopravvivenza messo in atto per resistere al carcere domestico, ma soprattutto, il rapporto con ciò che è stato per anni la loro unica finestra sulla realtà oltre la soglia di casa, il loro unico filtro sul mondo: la televisione. Lo strumento salvifico contro l’isolamento definitivo, contro l’annullamento estremo dell’immaginazione. Ciò che rappresenta lo schermo televisivo per i fratelli Angulo è, paradossalmente, la vera e propria esistenza.
L’appartamento in cui si muove la videocamera di Crystal Moselle si trasforma in un set in continuo mutamento, una stanza dei giochi e al contempo in un crogiolo di citazioni cinematografiche riproposte e messe in scena dai sei fratelli: Pulp Fiction, Le Iene, Batman Begins, ecc.
L’autorappresentazione di sé passa attraverso l’impellenza della reiterazione, della rimessa in scena di una realtà altra, fino all’identificazione in una nuova vita, che sia più attiva, piena, realmente viva. Gli infiniti mondi esplorati dagli Angulo diventano per assurdo l’unico modo per combattere il non essere nel mondo reale. The Wolfpack ci guida verso una riflessione inevitabile, mettendoci di fronte ad una realtà che ci suona assurda quanto familiare, un paradosso che sembra ribaltare lo stile di vita dell’uomo contemporaneo con la sua perfetta immagine speculare: se l’uomo libero si autorelega alla clausura domestica, i fratelli Angulo sembrano di contro gli individui più puri che aspirano ad emergere dal buio della caverna attratti dalle ombre di una luce indefinita. Quadro tragico e nichilistico dei tempi moderni, espressione di solitudine e isolamento, che sia la relegazione forzata nel guscio securitario genitoriale o l’esilio spontaneo dell’uomo che non accetta la vita e si rifugia nell’illusione effimera.
Ma il film sembra aprirsi anche a riflessioni più estese. Da una sfera intima e drammatica si sposta su territori inaspettati, si apre a considerazioni sociologiche quanto mai attuali. La videocamera della Moselle si muove all’interno di un appartamento come tanti nei sobborghi di New York ma finisce col catapultarsi all’interno di un vero e proprio microcosmo, un nucleo autonomo che si discosta da quel fanatismo razziale metropolitano ma che allo stesso tempo lo estremizza. Il documentario finisce col diventare un esperimento sociale fortuito, uno studio etnografico su una tribù che vive di paradossi: ideologicamente fuori dal mondo ma che allo stesso tempo si nutre e sopravvive grazie ai prodotti della stessa società. I fratelli Angulo sono fuori dal mondo ma in esso totalmente immersi, come un cerchio resistenziale assediato senza tregua e senza via di fuga.
La vita dei fratelli Angulo funge da efficacissimo quanto accidentale saggio critico sul concetto di postmoderno. La loro storia è la messa in atto involontaria di una modellazione identitaria ad opera dell’invadenza pubblicitaria, cinematografica e televisiva dell’era moderna. Pur mantenendo il loro Es genuino, i sei fratelli diventano le più evidenti vittime di quel subissamento dei più corrosivi prodotti della società capitalista. La madre-TV finisce così col salvarli dall’isolamento ma allo stesso tempo ne plasma le volontà e i desideri, fino a renderne le idee dei semplici simulacri. Un paradosso che fa riflettere e che, in una visione puramente pessimistica, sembra volerci suggerire quanto sia impossibile fuggire da una società dominata dai media. Nel finale i fratelli Angulo riusciranno a liberarsi dalla morsa egemone del padre padrone, ma saranno davvero liberi?