Un piede in una nazione, il secondo dentro un’altra. “Los Lobos” non è una storia di confine in termini classici, ma porta lo stato di transito del migrante nello spazio delimitato della città, scegliendo come luogo protettivo e allo stesso tempo da superare, quello della casa.
La ricerca di un nido dove proteggere i propri figli, occupa Lucía (Martha Reyes Arias) e i primi minuti del film; una carrellata frequentativa di ritratti che stabilisce un connubio indicibile tra estraneità ed accoglienza. I volti dei locatori sono quelli di un’America migrante, filmati con una costante che si prolungherà lungo tutta la durata del racconto, sfruttando la prossimità della fotografia sociale, tra il rigore di Lewis Hine e Dorothea Lange e l’esplosione cromatica “cruda” di autori come Guillermo Arias. Le regole sono quelle del mercato, dove le logiche dell’esclusione replicano la prassi della sorveglianza dei confini entro lo spazio comunitario.
Lo spicchio di Albuquerque che Samuel Kishi Leopo descrive è quello dei quartieri più poveri, dominati dal traffico di droga e con un orizzonte fatto di agglomerati fatiscenti, discariche a cielo aperto, oggetti di consumo derealizzati.
Max (Maximiliano Nájar Márquez) e Leo (Leonardo Nájar Márquez), sognano il viaggio a Disney World mentre la madre lavora per mantenerli; la loro prima casa statunitense diventa una nuova prigione. Dall’interno immaginano un mondo fantastico, raffigurato da alcuni inserti d’animazione, due piccoli lupi antropomorfi vergati sulla parete. I disegni seguono l’andamento del film, anche nella contaminazione tra il racconto per bambini e l’assimilazione di una violenza che ne minaccerà i contorni infantili con il colore del sangue, pur rimanendo ancorati alla dimensione del sogno.
Un vecchio registratore a cassette è lo strumento con cui Lucía conserva il passato e allo stesso tempo, determina una nuova narrazione per i figli. Sui nastri incide dei piccoli esercizi di lingua inglese per accompagnare la solitudine dei due bambini durante la sua assenza. Tra la voce materna e la registrazione di quella del nonno, prima di esser divorato dall’Alzheimer, i bambini frappongono lo schermo della finestra. È da li che osservano i ragazzi del vicinato mentre giocano a pallone oppure mimano attitudini criminali durante il pomeriggio che precede la notte di Halloween. Il mondo del quartiere, tra cui la materna locatrice cinese interpretata da Cici Lau, entra nell’appartamento in varie forme, inclusa una violenza che rimane sempre sul bordo, pronta ad esplodere, osservata da dietro un cancello divelto, intravista di sfuggita, compressa nei giochi dei bambini che distruggono vecchi oggetti di consumo, reti metalliche, bottiglie usate.
Lo sguardo è quello di Max, il maggiore e l’unico che viola il confine della casa per scoprire e toccare il mondo esterno. Samuel Kishi Leopo riesce a mantenere una sottile tensione minacciosa con l’attenzione ai dettagli minimi della scoperta, senza spingersi oltre la linea drammaturgica che avrebbe trasformato il suo film nella costruzione di una mitopoiesi della disperazione.
In questo senso mantiene un equilibrio che toglie fortunatamente programmaticità al racconto, affidandosi alla potenza del caso e alla coesistenza di empatia e crudeltà, per individuare la dimensione apolide di uno spazio “aperto”, dove la distinzione tra interno ed esterno, proprio ed estraneo, privato e pubblico viene cancellata dai segni di una zona di guerra non convenzionale; tra le siringhe abbandonate c’è ancora spazio per lo stupore e l’abbraccio.
Dal racconto autobiografico, condiviso in fase di scrittura con Sofía Gómez Córdova, Samuel Kishi Leopo riduce al minimo i riferimenti più stretti, tanto da introdurre il passato di Lucia solo marginalmente, attraverso brevissime rivelazioni, la persistenza di alcuni oggetti familiari e il confronto con l’esperienza altrui. Il silente scambio di sguardi tra la donna e Mrs. Chan sembra riverberare due storie di violenza e sofferenza domestica di cui con conosciamo alcun dettaglio. Sono le tracce materiali a resistere e a determinare una relazione tra luoghi e memoria, da una parte quelli di una società globalizzata che produce scarti inutilizzabili, dall’altra i nastri di Lucia, voci da un passato remoto che conservano semi di speranza per il futuro dei suoi figli.
L’angoscia persecutoria generata dalla vicinanza dello “straniero interno” nelle società globalizzate emerge come codice indifferente alla promiscuità dei bambini, attraverso una serie di linee di confine, definizioni territoriali, organizzazioni dello spazio che dal quartiere si estendono fino al luogo di lavoro dove Lucía è impiegata come uno dei tanti schiavi del mercato.
Ecco che il sogno di libertà sintetizzato dal’immagine di una Disney World più scassata, l’unica che la madre di Leo e Max possa permettersi, sprigiona l’energia del gioco, come costante che attraversa tutto il film del regista messicano, anche quando la violenza confina pericolosamente con l’esperienza ludica.
Su questa transitabilità e attraverso le partizioni invisibili che organizzano il mondo, Samuel Kishi Leopo costruisce un epos quotidiano fatto di attraversamenti e continue migrazioni spazio-temporali. Nel bene e nel male l’unico mondo possibile.