Una variante “distante” e visuale del tradizionale racconto di formazione. Questa è forse la caratteristica centrale di tutto il cinema di Joachim Trier, bilanciato tra un’attenta disamina delle superfici e la relazione dei corpi calati nello spazio funzionale; la sua formazione in terra norvegese ha orientato uno specifico approccio all’immagine, che all’empatia da sempre preferisce una personale fenomenologia sulle origini del trauma.
Thelma non è diverso in questo senso dalle precedenti produzioni del regista di “Reprise”, ma in qualche modo ne assorbe le peculiarità per applicarle alle forme del racconto fantastico, con un carico simbolico che in precedenza veniva mitigato dalla sospensione del tempo narrativo, mediante procedimenti esplicitamente ellittici. Accade anche in Thelma, sin dall’incipit che insinua un dubbio atroce; perché il padre di questa bambina dolcissima sembra indeciso tra l’abbattere il cerbiatto che gli si para davanti oppure uccidere la figlia con un colpo di fucile alla nuca? Quasi una citazione rovesciata rispetto al bellissimo Prisoners di Denis Villeneuve, dove la perdita dell’innocenza accomuna, sincronicamente, tutti i personaggi.
Di qualsiasi natura sia il male che attraversa la famiglia di Thelma (Elli Harboe), assume una qualità diversa rispetto al punto di vista che osserva la manifestazione “innocente” e necessaria di un processo identitario.
Questo processo, sembra suggerirci Trier, avviene secondo un accordo tra pulsioni interiori e la manifestazione mondana della vita comunitaria, oppure viene orientato da un’esperienza che precede il desiderio, negandone l’espressione più diretta? E questa negazione, proviene dal nido famigliare o dalla nostra capacità a reciderne o meno tutte le possibili connessioni?
Prima ancora di vedere, Thelma desidera, ma con il diavolo nell’occhio. Non è allora lo sguardo che anima il cinema di Trier, quanto l’impatto mentale della visione soggettiva sulla manifestazione della realtà. Una mediazione che in tutto il cinema fantastico, anche quello selvaggiamente meno interessato alle note a margine, genera una collisione terribile tra sogno e vita, confondendo i piani e scambiandone le priorità.
Trier guarda esplicitamente al cinema della seconda metà degli anni settanta, da Carrie a Patrick, fino a The Medusa Touch di Jack Gold, tutti film dove il trauma infantile e la protezione esclusiva della famiglia, genera lo scatenarsi di forze oscure.
Oltre a questo involucro, sollecitato ad un livello semplicemente tematico, gli interessi del regista di adozione norvegese si orientano verso il Dreyer di “De nåede færgen” e il Cavalcanti di “Dead of Night”, cercando di delineare la genesi di un incubo illuminato quasi sempre da una raggelata luce diurna, incluse le attente ricerche sull’epilessia psicogena e il training a cui è stata sottoposta la Harboe per interpretarne correttamente la fenomenologia.
Sull’incerta natura del trauma e non sulla sua provenienza, il regista cresciuto in norvegia imposta continui slittamenti di senso, tanto che il racconto che dovrebbe descriverne l’origine si perde per lasciare il posto al modo in cui questo viene raccontato. Rispetto al realismo intimista dei suoi precedenti film, Trier realizza con Thelma il suo lavoro più sottilmente metadiscorsivo.
La possibilità e la capacità di vivere la propria storia affettiva è un continuo dibattersi tra la scrittura del sogno, i cui autori cosi come gli attori sono molteplici, e quella del desiderio, ponte tra l’esisente e la formazione identitaria personale.
Ecco che il film viene continuamente riscritto, proprio a partire dalla centralità di Thelma e dal suo rapporto con il padre, perno attorno al quale ruotano tutte le figure che costituiscono la vita della ragazza dentro e fuori il nucleo famigliare. Thelma è un demone e una vittima, di se stessa o di un contesto. Vive tutto fino all’estrema sofferenza oppure tutto si immagina. Un procedimento che diventa esplicitamente metanarrativo nella doppia ripetizione del bacio conclusivo; rivissuto, desiderato oppure vissuto per la prima volta, al di là dell’ontologia legata al racconto soprannaturale.
Alla dimensione cristiana del peccato, si oppone un percorso di conoscenza carnale che Trier affida ai segni della natura, ai presagi di una catastrofe imminente e ad un cinema sussurrato e intimista che trasforma il segno in simbolo, punto di forza ma anche debolezza estrema di un cinema che spesso confonde le carte e che ci sembra riuscito soprattutto quando riesce a racchiudere tutto nell’ambiguità del gesto o nella continua e irrisolta imminenza di un evento.
In Thelma rimane la forza del non detto, anche nelle figure chiuse in un silenzio quasi atavico o in un percorso affettivo indicibile, come quello della silenziosa Anja. All’invadente tenerezza del padre di Thelma, si oppone l’inquietante fermezza anafettiva della madre, una dinamica a cui Trier non risponde, racchiudendola nei volti di Henrik Rafaelsen e Ellen Dorrit Petersen, sospesi tra grazia e fanatismo, autodifesa e resistenza alla vita, in un continuo rovesciamento di quelle simmetrie che nel cinema di genere degli anni settanta rappresentavano la progenie corrotta dal male come un’origine a cui opporre un netto rifiuto, una malattia inesorabile e sconosciuta, una mutazione organica inaccettabile.
La visione antropologicamente laica di Trier sposta quindi l’interesse per l’origine di una dimensione extrasensibile, in quella zona grigia dove il desiderio rimane sospeso tra volontà individuale e percezione esterna. Il ricorso, volontario e scelto, ad una serie di analisi neurologiche da parte di Thelma è chiarissimo in questo senso ed è un tentativo esplicito di scardinare il topos della scienza che niente può di fronte al manifestarsi di forze psichiche fuori controllo. Trier in questo caso cerca di rileggere Friedkin, semplificandone la straordinaria visione langhiana del male contro il male e sviluppando un suo personale discorso sulla ricerca delle proprie origini, sulla connessione tra coscienza e conoscenza e successivamente sul rapporto tra corpi e spazio, primo piano e sfondo.
Thelma in questo senso è un film che alla vastità dello spazio naturale, contrappone la mobilità di quello architettonico e funzionale, inizialmente descritto nella fusione tra natura e interpretazione culturale della stessa e a poco a poco chiuso dagli stessi elementi costitutivi durante la formazione di un incubo claustrofobico. La Oslo di Thelma è l’altro lato della città, rispetto a quella di “Reprise” e di “Oslo, August 31st”; concreta e destinata alla fruizione comunitaria, tiene fuori la natura e la relazione dell’inconscio con questa. Come l’eredità lasciata da un padre ingombrante, non è meno nociva e non è meno “possibile”. Anche la morfologia di un luogo, modella e si modella, nello spazio salvifico tra il riflesso e lo sguardo.