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Thuy, il bel debutto di Jae-han Kim al Busan Film Festival 2013

Jae-han Kim, laureato al Busan Arts College, si è dedicato per anni alla formazione, fondando nel 2001 una scuola di arti visive per i ragazzi, documentando una parte della sua vita con un film biografico intitolato “A silent man”, cominciato nel 2011 e rimasto attualmente incompiuto. Thuy è quindi il suo effettivo debutto, presentato all’edizione appena conclusa del Busan Film Festival 2013.

Nguyen Thi Thuy (Ninh Duong Lan Ngoc) è una giovane donna Vietnamita sposata ad un uomo Coreano; entrambi vivono in un villaggio rurale che Jae-han Kim filma come un microcosmo ancora in contatto con le proprie radici arcaiche, tanto che Thuy mantiene insieme al padre del marito un piccolo tempio devozionale. Quando il marito di Thuy, attratto in modo compulsivo dal gioco d’azzardo, morirà in seguito ad un incidente in motocicletta, il regista coreano ci mostrerà il veicolo isolato in mezzo a un bosco, lasciando fuori tutta la dinamica dei fatti e sostituendola con un’immagine astratta che rimanderà alla sequenza successiva la dolorosa agnizione del cadavere da parte di Thuy.

È un piccolo esempio dello stile semplice e rigoroso di Jae-han Kim, attento a lavorare sullo spazio più che sui corpi, spesso osservati a distanza come figure completamente assorbite dalla durezza del paesaggio e inserite nel perimetro claustrofobico di questo insieme di baracche dove vive la famiglia di Thuy.

La giovane donna non riuscirà a darsi pace dopo la morte del marito, e cercherà di far luce sugli eventi ripercorrendo tracce, contatti, conoscenze e sollecitando le forze dell’ordine a trovare una pista.

Quando il sergente Lee, un poliziotto inviato da Seul, cercherà di aiutare la donna a trovare la verità, dovrà scontrarsi con l’ostracismo violento della polizia locale. È su questo intreccio che Jae-han Kim analizza alcuni aspetti inediti della società coreana, svelando a poco a poco un contesto fatto di abusi e di ostilità totale nei confronti degli outsider. Non è solo Thuy, donna Vietnamita osservata come un’aliena dalla piccola comunità Coreana, ma tutto il brulicare di creature che vivono sul filo del limite e che in una povertà dalle caratteristiche quasi ineluttabili, considerano il denaro come un tramite necessario. Se il nucleo dei poliziotti locali sembra aver costruito un piccolo impero basato sulla menzogna, gli abitanti del villaggio abitano un inferno quotidiano, come la donna che chiede al suocero di Thuy di poter comprare la giovane Vietnamita per darla in sposa al figlio rimasto solo oppure la stessa suocera di Thuy, completamente pazza e guidata solamente da impulsi basilari.

Senza cedere alle atmosfere del melò, Jae-han Kim ne usa gli elementi più evidenti, scarnificandoli al massimo e spingendosi sempre di più dentro l’abisso di una terribile tragedia domestica.

Thuy è come una finestra spalancata sulla descrizione visiva dell’ambiente e allo stesso tempo spinto da una forza inesorabile nel far coincidere tutti i segnali di morte; se si osserva la sequenza in cui la bambina vestita di rosso ostacola il poliziotto dal suo cammino nell’angusto villaggio, con tutta l’ostinazione meccanica del gioco, sembra che Jae-han Kim eviti la forzatura del simbolismo mantenendo questa relazione stretta tra personaggi e ambiente circostante in un modo sempre causale; un rigore che salva il film più di una volta da alcune approssimazioni didascaliche legate ai dialoghi e al modo in cui l’indagine di Thuy procede lungo il film; al di là di queste piccole incertezze, il film di Jae-han Kim, commentato in modo minimale e scabro dalla piccola orchestra d’archi di Jun-seok Bang,  filma il vuoto con un notevole senso dell’inquadratura e si distingue come il debutto di un autore da tenere d’occhio.

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