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Titane di Julia Ducournau: recensione

Il corpo di Agathe Rousselle ci conduce verso un progressivo smontaggio della famiglia patriarcale, per assemblarne una nuova con i pezzi psichici, meccanici e organici raccolti attraverso relitti e resti lasciati fuori dal pensiero oppositivo. Sullo Splendido "Titane", palma d'oro al Festval di Cannes e nelle sale italiane a partire dal 30 settembre grazie a I Wonder Pictures. La recensione di Michele Faggi in anteprima

Alexia, bambina irrequieta, tormenta il padre alla guida di un’auto. Agitata sul sedile posteriore percepisce le vibrazioni del veicolo, imitando il rumore del motore. C’è già qualcosa di terribilmente fisico nell’attrazione della bimba per questo ventre meccanico che la trasporta. Una distrazione, la cintura di sicurezza improvvisamente sganciata, l’ira del padre e lo schianto dell’auto fuori carreggiata. Un’operazione d’urgenza le sostituirà parte del cranio con una calotta di metallo. Appena fuori dalla sala operatoria, Alexia abbraccerà il veicolo al posto di una qualsiasi figura famigliare.

Cos’è un Cyborg e soprattutto, cosa può suggerire per comprendere la formazione di soggetti molteplici e dinamici? Julia Ducournau continua a chiederselo con il suo Titane, mentre Donna J. Haraway se lo chiedeva 36 anni fa, indicando la strada a molta fantascienza, non solo femminista e rovesciando alcuni assunti legati alla relazione uomo-macchina, dove il predominio della tecnologia veniva rappresentato secondo parametri distruttivi. Per la Haraway, il cyborg poteva finalmente riferirsi a realtà sociali corporee dove le persone non temono una comune parentela con animali e macchine, incoraggiando la formazione di identità parziali e di transizione, capaci di far emergere punti di vista problematici. Il Cyborg situava identità molteplici con l’ausilio della tecnologia, dissolvendo i confini tra umano e macchina, umano e animale, reale e irreale. In questo senso, la categoria del post-umano, intesa come ricollocazione genealogica dell’umanità e dell’antopocentrismo, si costituiva come critica feroce dell’umanesimo incorporando l’alterità all’interno dei processi di formazione identitaria.

La fantascienza cinematografica mainstream dagli anni ottanta in poi, tranne alcune eccezioni precedenti, entra progressivamente nel dibattito della costruzione del genere e del corpo post-umano, con la descrizione di personaggi ibridi, tra tecnologia e modificazioni genetiche, per abbandonare, in un modo o in un altro, le rappresentazioni binarie più evidenti.
Un lungo percorso che spesso, per ragioni culturali e politiche, dimentica la traccia delle artiste donne, molto prima e molto dopo il cyberpunk, che hanno contribuito ad uno sviluppo specifico di nuove genealogie post-umane.

Una differenza che diventa flagrante nella lettura diametralmente opposta di Crash, il romanzo di JG Ballard, fatta da Baudrillard e Vivian Sobchack. La teorica statunitense si scaglia contro l’interpretazione del filosofo francese , definendola assolutamente parziale nella definizione del tecno-corpo postmoderno. Vicino all’estrema oggettificazione della pornografia, smentisce Ballard e si avvicina agli aspetti più oscuri del personaggio Vaughan: “non c’è niente come un piccolo dolore per riportarci (indietro) ai nostri sensi, niente come un segno, una ferita vera (non immaginata) oppure orifizio artificiale, per contrastare il romanticismo postmoderno di Baudrillard. Mi sto riprendendo da un importante intervento chirurgico per contrastare il cancro sulla mia coscia sinistra, una cicatrice di 12 pollici che segna il “nuovo” luogo di una “invaginazione artificiale” dove, per cinque ore, “cromo e membrane mucose” convergono. La mia coscia è infatti segnata da diverse esperienze di “chirurgia brutale” che la tecnologia “esegue continuamente nel creare incisioni, escissioni, tessuto cicatriziale, buchi corporei“; è una coscia “dominata da tagli, tagli e cicatrici tecniche“. Ma non è certo una coscia “senza organi”, né la contemplo ora, dal momento in cui mi fa male, “sotto il segno fulgido di una sessualità senza referenzialità e senza limiti“. Quando stavo bene tra un intervento e l’altro, è vero, potevo scherzare sul fatto che il mio dottore “era andato dove nessun uomo era andato prima“, o fare parallelismi tra l’essere anestetizzata e “penetrata” da un chirurgo e tutti quei romanzi inglesi come Clarissa in cui le eroine virginali venivano drogate e violentate sessualmente, prive di sensazioni corporee, ma anche prive di responsabilità”

Nel virgolettato, che abbiamo messo in corsivo, la Sobchack utilizzava criticamente la prosa Baudrillardiana dedicata al romanzo di Ballard. Mentre lo scrittore inglese vede e interpreta il tecno-corpo come una strada proiettata verso un vicolo cieco, Baudrillard rifiuta questa condanna, preferendone, dice sempre Sobchack, la supposta fascinazione per cicatrici, ferite e orifizi, come segni di una sessualità violenta.

Augurandogli un paio di incidenti di macchina, aggiungeva: “Ha bisogno di un po’ di dolore (forse molto) perchè torni in sè, affinchè ricordi di avere un corpo, il suo corpo, e che lo “sguardo morale” inizia lì, con il senso vissuto e il sentimento immaginato del corpo umano non solo come oggetto materiale tra gli altri, ma come soggetto materiale che sanguina, soffre e ferisce per gli altri perché può sanguinare, soffrire e ferire per se stesso”.

Una lunga premessa, oltre alla descrizione dei primi minuti di Titane, per definire alcuni confini teorici. Il nuovo film della regista francese, parte di un percorso che da “Mange”, passando per Raw, ha elaborato una personale visione radicata e corporea, evidenzia, con maggiore forza rispetto ai lavori precedenti, una strenua resistenza a quelle linee di potere che cercano di normare la formazione di un soggetto. La passione di Alexia è più vicina a quella dell’Eva di Angela Carter o all’idea di postumanesimo indicata dalla Sobchack che ad altre declinazioni senza sangue e dolore di una metastasi postmoderna che si ripete sempre identica a se stessa, come replica di quell’ultima spiaggia scopofila e mortifera, ormai deserta da decenni.

Il corpo di Agathe Rousselle ci conduce verso un progressivo smontaggio della famiglia patriarcale, per assemblarne una nuova con i pezzi psichici, meccanici e organici raccolti attraverso relitti e resti lasciati fuori dal pensiero oppositivo. In questo senso è lo stesso corpo filmico a diventare un ibrido tra sollecitazioni conosciute e l’irrisione soverchiante dei frammenti utilizzati.

Se per costruire un nuovo corpo politico, eterogeneo, eccentrico, conflittuale e costantemente a rischio Ducournau si serve di alcuni elementi che appartengono ora alla fantascienza, più spesso a certo body horror, lo stesso percorso di mutazione esperito da Alexia, attraversa il film in termini strutturali, con improvvise derive musical, momenti puramente performativi, la stridente sovrapposizione tra grottesco e come ha sottolineato Simone Buttazzi, nella sua bella recensione del film, immagine pulsionale.

C’è molto dell’utopia grottesca di autrici come Joanna Russ, dove la dilatazione dell’involucro utopico serviva già da esperimento strutturale, per problematizzarne i confini, completamente e irrimediabilmente. Alexa ha molto in comune con il Female Man della Russ, quasi fosse una rilettura di quell’eterotopia corporea, senza il complesso apparato multidimensionale costruito dalla grande scrittrice statunitense. Agathe Rousselle è un’eroina feroce, un’assassina, un soggetto che si crea senza mai riconciliarsi con la definizione che possa contenerla.

La relazione di nuova paternità con il pompiere interpretato da Vincent Lindon, oltre ad essere stratificatissima e a rimandare continuamente l’esser figlie/figli/padri/madri ad un indirizzo sempre diverso che slitta di posizione, viene compresa nell’insieme più grande di quel “fare parenti, non figli” che sempre Donna Haraway ha portato alle estreme conseguenze nel suo breve saggio del 2020 “Anthropocene, Capitalocene, Plantationocene, Chthulucene: Making Kin”, descrivendo la necessità di stabilire nuovi legami tra soggetti diversi, diverse modalità di riproduzione, diverse relazioni tra umano e non umano, nuove configurazioni multi-specie.

Se non c’era niente di comico nella sessualità penetrativa di Vaughan descritta da Ballard fino alle estreme conseguenze, non fa ridere la furibonda ferocia generativa di Alexia che cerca di costruirsi come soggetto attraverso il mondo che desidera.

In questi termini la Ducournau mette perfettamente a fuoco lo scatenarsi del soggetto entro i parametri di un mondo completamente oggettificato. La macchina risiede perfettamente a metà, concentrando una serie di stereotipi che la regista francese mette in abisso, inserendo frammenti di orrore e di abuso quotidiano. Questi improvvisamente evidenziano una violenza intollerabile a cui siamo evidentemente abituati. Non solo lo stalker trafitto dal fermacapelli dopo aver forzato la richiesta di un bacio, ma i giovani sull’autobus che descrivono uno stupro potenziale. La violenza estrema di Alexia allora, esplode come possibilità del soggetto, ma anche come rappresentazione di un costrutto che replica il dolore delle modificazioni corporee sulla carne delle sue vittime.

Alla ricerca di una dimensione fisica fortissima, Agathe Rousselle possiede, letteralmente, una Cadillac, cerca di strappare un capezzolo mordendo ossessivamente il metallo di un piercing, spurga morchia dal proprio corpo, cerca se stessa in un mondo decrepito che non vuole rappresentarla.

L’invenzione di questa congrega quasi sacerdotale di pompieri steroidei che la accoglie è divertente e allo stesso tempo, commuovente nell’affrontare una mascolinità dopata fino alla mutazione estrema, in una fratellanza tragica e decrepita che non può raccontare la propria omosessualità e che in qualche modo, a sua volta, espelle i corpi eccentrici per preservare l’equilibrio della monade.

Si muove tra vari registri Ducournau, fortunatamente senza togliere carne dal fuoco, come dicevamo, una prassi che rispetto a Raw serve a ripulire il suo cinema da alcuni didascalismi, proiettandolo verso una misteriosa e affascinante ridefinizione dell’esperienza incarnata, al pari di High Life di Claire Denis, e continuando a seguire una genealogia femminile che comprende anche Breillat, la primissima Marina De Van, alcune cose della Bercot, ma trovando una voce del tutto personale, in un rovesciamento matrilineare di certe stereotipie cyberpunk, con un parto nientaffatto mostruoso.

Ancora, facciamo nostre le parole di Sobchack rivolte a Baudrillard: Se non teniamo a mente la forma soggettiva dell’esperienza corporea mentre negoziamo la nostra tecnocultura, allora noi, come Vaughan, come Baudrillard, ci oggettificheremo fino alla morte.

Titane di Julia Ducournau (Francia, Belgio 2021, 108 min)
Interpreti: Vincent Lindon, Agathe Rousselle, Dominique Frot, Myriem Akheddiou, Théo Hellermann, Lamine Cissokho, Mehdi Rahim-Silvioli
Sceneggiatura: Julia Ducournau
Fotografia: Ruben Impens
Montaggio: Jean-Christophe Bouzy

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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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