Fuori esplode un’epidemia contagiosa. Dentro, lontani da tutto, uomini influenti, politici, cardinali, industriali e giornalisti, si rinchiudono tra le mura di un eremo per svolgere esercizi spirituali e per tramare sulla spartizione del potere.
Todo modo, terzultimo film di Elio Petri, divenne subito un caso cinematografico. Niente di nuovo per il regista romano abituato, suo malgrado, alle feroci polemiche che hanno accompagnato i suoi lavori. Realizzato nel 1976, solo due anni dopo l’uscita dell’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia, il film fece molto discutere sia per i bersagli che intende colpire (espliciti sono i riferimenti all Democrazia Cristiana e ai suoi esponenti più importanti, Aldo Moro e Giulio Andreotti), sia per i toni apocalittici con i quali rappresenta il sistema politico italiano. Un film simbolico, fortemente espressionista, che sviluppa le tematiche centrali del cinema di Petri e le arricchisce di ulteriori spunti.
Come hanno notato molti studiosi, il tema della maschera è dominante nel cinema di Petri. Todo modo non si sottrae a questa regola. Tutti i personaggi sono stereotipi, maschere di un potere che perde la sua autorevolezza in una rappresentazione caustica della realtà, dominata dal grottesco. La commistione tra potere politico e potere teologico inquieta ma non indigna perché la maschera trascina i personaggi (e ciò che rappresentano) fuori dalla dimensione tragica e li contamina con il comico. L’oscillazione tra tragico e comico apre al grottesco che se da un lato permette al regista di distanziarsi dai suoi personaggi, dall’altro lato favorisce una lucida analisi della realtà che parte dallo straniamento per arrivare a mettere a nudo il potere e i suoi interpreti.
Nello sviluppo del tema della maschera è fondamentale l’apporto di Gian Maria Volonté, al quarto film con Petri dopo A ciascuno il suo, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto e La classe operaia va in paradiso. In Todo Modo, Volonté è la maschera di un potere compromesso che trova nelle sue debolezze la forza per ordire i propri intrighi. E proprio l’intrigo è alla base di molti film di Petri. Dietro al potere, dietro alla politica e ai gruppi che ne salvaguardano l’influenza, c’è sempre la manifestazione di un inganno, di una beffa ai danni del cittadino. Nello svelare i meccanismi del potere Petri si avvale però di un registro che trasforma l’inganno in farsa e la beffa in carnevale. Ecco quindi che gli esponenti del potere diventano essenzialmente delle maschere, allegorie di un sistema degenerato e malato. Nell’atmosfera grottesca, nello sguardo permeato da una forte carica di artificiosità, nell’interpretazione forzata, sopra le righe di tutti gli attori, Petri coglie la crisi del sistema politico italiano e smaschera tutti gli intrighi che legano la ragnatela di interessi tra i poteri forti, la politica, la chiesa, il mondo industriale e la criminalità.
Attenzione però: proprio per tutto quello che abbiamo visto, limitare il cinema di Petri nello spazio dell’impegno civile e politico sarebbe riduttivo. L’impianto di stampo kafkiano che, attraverso la ricerca del simbolo, mira alla rappresentazione tragicomica del potere (come non pensare a Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto), rende unica l’esperienza di Petri e allarga i confini di un discorso che finisce per privilegiare la riflessione sull’irrazionalità dei meccanismi del potere piuttosto che concentrarsi sulla denuncia del potere stesso. Il cinema di Petri è quindi un’indagine sulle forme del politico, sulle contaminazioni tra interesse pubblico e interesse privato. I registri utilizzati per l’indagine sono vari: la cupezza della rappresentazione si fonde con l’aspetto più grottesco dell’animo umano, mentre il tragico viene depotenziato e si confonde con il comico. In Todo modo la recita del grottesco avviene negli angusti spazi dell’eremo, resi ancora più limitanti dalla scelta espressionista che privilegia l’ombra alla luce, la percezione alterata alla visione nitida. Nell’oscurità emergono volti ambigui, trame di potere, contraddizioni e ambiguità.
Tutti elementi che qualificano il cinema di Petri e lo allontanano da altre esperienze contemporanee (su tutti Rosi, due autori spesso accumunati a torto). Come non sorprende più di tanto la posizione della critica militante nei confronti di Petri: celebre infatti la polemica innescata da Goffredo Fofi e culminata nelle veementi dichiarazioni del regista francese Jean Marie Straub che, durante il festival del cinema politico di Porretta Terme, nel 1971, invocò il rogo di tutte le copie de La classe operaia va in paradiso. Altri tempi e altro interesse verso il cinema, perché oggi il cinema di Petri (molto più di molti tentativi di cinema politico) è una delle testimonianze più autorevoli di come si possa scoperchiare il potere, di come si possa mettere in luce le fragilità e le contraddizioni di un sistema.
Un’ultima considerazione sull’interpretazione degli altri attori. Marcello Mastroianni, che interpreta Don Gaetano, colui che dirige gli esercizi spirituali, riscatta il mezzo flop di dieci anni prima con La decima vittima, il film più incompreso di Petri. E se Mariangela Melato, Michel Piccoli e Renato Salvatori sono poco più che ottimi comprimari, quello che sorprende di più è forse il più inatteso, Ciccio Ingrassia, che supera i confini del comico e trasporta la sua recitazione nella dimensione del grottesco e del tragicomico. In perfetta sintonia con i principi del cinema di Petri.