Passato recentemente per due festival Belgi, quello del Fantastico di Bruxelles e il Wallonie Bruxelles Images, il debutto nel lungometraggio di Nikolas List sembra destinato ad occupare la classica posizione di culto per originalità, efferatezza e un approccio non convenzionale alla narrazione. Tutti elementi che reagiscono quasi sempre positivamente, per una certa stampa di settore, con la prassi del nuovo cinema digitale a bassissimo budget, protagonista di una mutazione transnazionale del sistema produttivo e distributivo. Un film come quello di List, costato circa 10.000 euro, quindi è destinato per forza di cose al circuito festivaliero, all’evento speciale, oppure a forme di distribuzione temporanee, interstiziali e di breve durata. Definito dallo stesso autore Belga come un esperimento espressionista ispirato al cinema soggettivo di Robert Wiene, Tombville affonda le sue radici nella riproposizione di un trauma infantile che nell’incipit viene mostrato con apparente chiarezza. L’adolescente David si trova ad assistere ad un episodio di violenza esperito ai danni della madre attraverso una pratica sessuale estrema; dalla posizione dolorosa di uno spettatore silente il ragazzino acquisirà il controllo puntando una pistola contro l’uomo che sta picchiando sua madre. Dopo aver sparato il colpo correrà nella notte, inghiottito dall’oscurità, per poi ritrovarsi a 25 anni in un labirinto cognitivo dove dovrà fare i conti con la propria amnesia e con un mondo immaginale da cui la logica è bandita. Fin dall’inizio Nikolas List punta allo shock sensoriale, utilizzando tutti i segni dell’horror estremo su due piani ben distinti, quello visivo legato all’esasperazione deformante del dettaglio e quello auditivo, aspetto fondamentale che evidenzia a partire dai titoli di testa grazie ad un cartello di “Bowiana” memoria (to be played at maximum volume) che ci chiede di alzare il potenziometro per godersi al meglio lo spettacolo. Vengono subito in mente Cattet-Forzani per la qualità squisitamente musicale del loro cinema da cui List sembra desumere la stessa ossessione per la “campionatura”, il montaggio (anche) sonoro, l’immagine che da narrativa diventa sempre più ritmica e vicina ad una performance “visuale”. Rispetto al lavoro della coppia di connazionali, Tombville sposta il sound design in una posizione di primo piano, influenzando lo stesso montaggio delle immagini, spesso al servizio di un incedere dalla qualità “industriale”, ovvero aspro, metallico, dissonante, costruito attraverso una serie di cluster e orientato a rendere l’esperienza percettiva come percorso intollerabile. Se il riferimento al Lynch di Inland Empire entra in gioco per il modo in cui Nikolas List smembra la retorica di un genere per ricombinarla in una fantasia mentale e allusiva; la relazione tra buio e luce sembra esasperare un’impostazione illusionistica e per certi versi performativo-teatrale per l’effetto di astrazione dei corpi rispetto ad uno spazio indistinto. Questo a sua volta viene materializzato senza alcun riferimento preciso, con una mutazione a vista che si trasforma progressivamente nell’evidente rappresentazione di uno stato mentale alterato. Non siamo, fortunatamente, dalle parti del cinema giocattolo di Kaufman, e questo per due motivi fondamentali; ricostruire i tasselli è un’impresa davvero ardua che non sembra l’interesse centrale di List, al contrario l’utilizzo di una Canon 5D per la ridotta profondità di campo, spinge le immagini di Tombville verso un punto cieco, dove è quasi impossibile, per l’estrema prossimità a corpi, volti e oggetti, delineare un quadro d’insieme, tranne perdersi in una flânerie febbrile e Poeniana. Più che un rebus, il film dell’autore Belga è quindi un’immersione nella perdita di identità che segue una vicenda traumatica, dove la reiterazione, la proliferazione e la sostituzione percettiva seguono più i criteri del cinema underground o forse quelli di un’eredità “Nouvelle Vague” corrotta. A questa impermanenza sensoriale, Nikolas List aggiunge frammenti di violenza grafica estrema e un’attitudine quasi pittorica per l’uso del colore e il modo in cui sostituisce i suoni o le deformazioni dei corpi. Uno degli elementi più riconoscibili dell’horror Argentiano per esempio, ovvero il battito ventricolare, viene utilizzato con apparente superficialità come un elemento tensivo da giustapporre al decor, completamente separato dal contesto se non per assolvere ad una funzione legata alla suggestione percettiva, ma allo stesso tempo e in modo sorprendente acquisirà significati diversi e contraddittori lungo tutto il percorso del film grazie ad una prassi vertiginosa che punta allo slittamento di senso “tout court”, tra cui l’emozione contorta di David adolescente mentre la madre con molta probabilità lo sta masturbando. Tombville è un film controverso, a tratti disturbante e forse ancora un po’ troppo programmatico proprio nel tentativo ossessivo di “distrubare”, ma come nel caso di Cattet-forzani, supera con un certo coraggio la forma cultuale e citazionista di un genere nel tentativo di portare l’esperienza cinematografica in un’interzona post-digitale e libera dai soliti, dannosi, “sceneggiatori intelligenti”.