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Ultima notte a Soho di Edgar Wright: recensione

Edgar Wright rivela un'inedita geografia londinese, tra mitologia e brutale dissinesco della stessa. Note sul suo capolavoro, Last night in Soho.

L’amore di Eloise “Ellie” Turner per Londra è radicato in un passato mitico. Abituata alla vita dilatata di Redruth, piccolo centro della Cornovaglia, ha disseminato di segni e suoni la sua cameretta, mentre immagina di intraprendere la carriera come stilista al ritmo di “A World without love“, il brano scritto da Paul McCartney nel 1963 e inciso l’anno successivo da Peter & Gordon. Fuori tempo massimo per i Beatles, almeno secondo il parere di Lennon che non l’amava affatto, esprime il senso d’angoscia per l’ostilità del mondo e il desiderio di proteggersi chiudendosi in una realtà onirica. Quel “Please lock me away, and don’t allow the day” diventa lo scudo di Ellie, ciò che gli consente di tenere a distanza la disprezzata contemporaneità, per tuffarsi a capofitto in un tempo mai vissuto.

Balla tra il poster di Twiggy e quello di Colazione da Tiffany, indossando un paper dress, oggetto della swinging london destinato al consumo immediato che diventa indumento legato ad un’eccezione, il segno più evidente di una crisi in atto, risolta con la ricerca di una supposta autenticità collezionabile, per difendersi dall’accellerazione del presente.
Le sovrapposizioni, anche politiche, sono molte e possibili, ma è solo l’inizio dei continui slittamenti a cui la protagonista di “Last Night in Soho” viene sottoposta.

Per Edgar Wright, ogni segno e riferimento contiene il suo palindromo oscuro e persino la puntina che si inceppa mentre riproduce un vinile, può rilevare il senso di spaesamento e di perdita imprigionato in una canzone.

La silhouette di Thomasin Mckenzie introduce una sequenza da manuale che ha l’incedere del musical; andamento che Wright non abbandonerà mai, fino a raggiungere un’intensificazione estrema nelle mutazioni a vista dello spazio, incluse le dilatazioni ottiche della città, quasi ad amplificare la corsa di Norma Shearer tra la finzione del palco e la realtà del sogno in un contesto urbano.

Occorre recuperare il Wright regista di video musicali, e le modalità con cui l’approccio fortemente coreografico di questi, dialoga da sempre con il suo cinema, fino a Baby Driver, film che reinventava certa estetica combinatoria, introducendo una dialettica ritmica di grande forza tra passato e presente. Remix in termini squisitamente compositivi e musicali, che trova un’applicazione ancora più radicale nel nuovo lavoro, dove il colore e l’emergere di una costruzione più fluida ed emozionale rispetto all’ipercinetismo del montaggio, giocano un ruolo fondamentale.

La rimediazione tra analogico e digitale nel passaggio da mixtape a playlist, ma soprattutto la ricerca di una prassi gestuale perduta nelle abitudini di ascolto contemporaneo, indicava Baby come figura di transito, capace di recuperare il passato per decodificare una realtà altrimenti disumanizzata, nella relazione abituale con i dispositivi.

Non è diversa Ellie, con la sua ossessione per i dischi in vinile e i suoi ascolti congelati negli anni sessanta, da Cilla Black a Dusty Springfield. Eppure Wright compie un passo ulteriore nel suo dialogo complesso con la nostalgia, perché se rigettare il presente creandosi un proprio spazio personale diventa necessario per difendere le radici di una tradizione culturale dalla barbarie predatoria coeva, i pericoli di una bolla onirica inespugnabile sono quelli di non considerare questi stimoli in termini dinamici e talvolta contrastanti. Lawrence Alloway, quando nel 1956 introduceva la seminale This is Tomorrow, definiva in forma aperta i confini della prossima esplosione pop londinese. Se il domani preconizzato nel passato non è l’oggi, che forma avrà il nostro futuro?

Il vastissimo omaggio al cinema britannico che Wright sdipana, nutrendo le immagini del suo film di moltissimi riferimenti, vive esattamente questa complessità, cercando di rivelare, attraverso una costruzione maniacale e filologica del dettaglio, il rovescio della palpebra e soprattutto, disinnescando il meccanismo della nostalgia, caro a quei cineasti che sfruttano il sogno come codice di una memoria mai stata.

Per rovesciare quello di Ellie nell’incubo e sfruttare la dimensione soprannaturale che attraversava alcuni titoli horror di quegli anni, la polvere di stelle si tinge improvvisamente di sangue e il passaggio da un genere all’altro, serve a Wright per creare una geografia londinese situata in una temporalità aberrante, nel continuo scambio tra attuale e virtuale, storia delle immagini e loro reinvenzione. Queste infinite rappresentazioni di Londra, sono a loro volta coalescenti. Mondi che si espandono esemplificati da quell’immagine allo specchio proveniente dal passato, il cui punto di vista non segue assolutamente una logica di percorrenza binaria.

Wright parte certamente dal kitchen sink drama, collocando il volto di Rita Tushingham in una posizione testimoniale rispetto al ruolo della Mckenzie, piccola eroina che vive illusioni e sogni rimodulati su quelle narrazioni, messa in guardia dalla nonna che l’avverte sulle caratteristiche eccedenti di Londra: “può essere troppo”.

Il monito verrà ripetuto da angolature differenti, per descrivere una città inafferrabile e fuori dai cardini.

La musica stessa ne rivela la doppia, tripla natura; Wright compie un’operazione di continua ricontestualizzazione del commento musicale scegliendo una serie di brani che dialogano in modo dinamico con il film, tanto da rivelarne un’essenza nascosta o più semplicemente il germe del declino, l’origine di un sogno già incrinato. Se si riascoltano tracce come “Starstruck” dei Kinks, “Puppet on a String” di Sandie Shaw, “Eloise” di Barry Ryan, non sarà difficile rintracciare l’ombra del crepuscolo nella luminosità dell’architettura popular.

Sandie, la ragazza interpretata da una straordinaria e dolente Ana Taylor-Joy è quindi l’incubo vivido di una swinging london inimmaginabile per Ellie. Nel delineare la sorte della sfortunata cantante che si muove intorno al Cafè de Paris e che viene sfruttata dal suo impresario, Wright ripercorre in modo esplicito la sordida crudeltà di Beat Girl, il film diretto da Edmond T. Gréville, tanto da recuperare il tema scritto da John Barry per la pellicola del 1960.

La storia della città viene allora ricostruita attraverso la cultura e l’eredita visuale dei sessanta, un vero e proprio sabotaggio della macchina del ricordo, basato sull’utilizzo comparato di fonti eterogenee capaci di far reagire il racconto popolare.

Londra, tragica, violenta e brodo di coltura di una mascolinità tossica, diventa improvvisamente più vicina a quella dei gemelli Krays raccontati da Peter Medak, dove il sogno è già stato noleggiato dalla criminalità organizzata.

Ma c’è di più, perché Wright compie questa inversione percettiva con grande capacità narrativo-combinatoria, servendosi del cinema come vera e propria risorsa documentale per ricostruire luoghi, sovrapporre immaginari, tanto da creare una nuova geografia della città, sospesa tra esattezza storica e trasfigurazione fantastica, senza scegliere quale dei due luoghi sia quello abitabile.

Uno dei molteplici esempi del metodo vitalissimo sfruttato dal regista inglese, come abbiamo già accennato, è nello spazio amplissimo che viene lasciato alla costruzione del senso, nell’interazione tra musica popolare, ricostruzione storica e immaginario cinematografico.

La sequenza in cui Sandie si lancia in un ballo furibondo sulle note di “Land of 1,000 Dances“, nella versione dei Walker Brothers è forse l’esempio più preciso, oltre che uno dei momenti più intensi del film. La futilità del testo, resa già problematica dal cantato tenebroso di Scott Walker, si abbina brutalmente con la tragicità del contesto, quasi a suggerire una sovrapposizione oscena tra la varietà di passi e modi della danza popolare, con i volti, le finzioni e i ruoli che Sandie è costretta ad assumere per assecondare i clienti ai quali si concede.

Il musical, in questo come in altri momenti del film, esce dal solco della funzione coreografica come veicolo di una dimensione unitariamente pop, per fondersi con altri generi, optical art inclusa, così da esprimere un profondo e vertiginoso senso di oblio.

Del resto, anche Ellie è completamente persa nel suo tempo, nè riesce a dare un senso a quel passato eretto ad icona. Come nei migliori film di Roeg, le precognizioni sono esca per qualcosa di diverso e la percezione ultrasensibile di un dettaglio, non consente di ottenere la visione d’insieme.

Tutti i poteri medianici della ragazza saranno destinati a fallire, a generare equivoci, a scompaginare le tessere di un puzzle che non può essere risolto, perché il senso risiede in un vero e proprio paradosso temporale, quello di vivere i propri anni sulle tracce di un mito immaginato da qualcun altro.

La carrellata di alcuni volti storici del cinema britannico degli anni sessanta, la già citata Rita Tushingham, Terence Stamp ed infine Diana Rigg, mette insieme figure in declino, spesso tragiche, chiuse nella loro personale falda temporale, non meno fantasmatiche degli ectoplasmi che perseguitano Ellie anche nei vicoli di una città irrimediabilmente infestata da un passato oscuro.

Diana Rigg in particolare, icona fetish tra cinema e televisione, esprime forse il senso più profondo del film di Wright, in un modo simile alle dolenti lettere d’amore e odio scritte (con)tro Londra da Marianne Faithfull nel suo album più sofferto. Il sogno qui si infrange tra l’artwork in fiamme di “Ev’rything’s Coming Up Dusty“, il secondo album di Dusty Springfield e le note di “You’re My World” di Cilla Black. Amore e disillusione, fine di un mondo che termina schiantandosi nell’incubo di un altro. Le liriche della canzone interpretata dalla Black assumono quindi una connotazione palindroma, commentando tragicamente l’immagine di un riflesso frantumato, dove l’unica possibilità di sopravvivenza risiede nella reintegrazione di quel rovescio oscuro cancellato da un’aderenza pedissequa al mito.

Le immagini di una Londra notturna e svuotata da ogni segno vitale che chiudono il film sulle note del brano di Dave Dee, Dozy, Beaky, Mick & Tich scritto pensando al centro nevralgico della Gangland criminale, rivelano l’idea di una città non riconciliata in bilico tra luce e oscurità, per questo ancora possibile.

Ultima notte a Soho di Edgar Wright (Last Night in Soho – GB 2021 – 118 min)
Interpreti: Anya Taylor-Joy, Thomasin McKenzie, Matt Smith, Terence Stamp, Diana Rigg, Rita Tushingham, Michael Ajao, Synnove Karlsen, Andrew Bicknell, Joakim Skarli, James Phelps, Oliver Phelps, Colin Mace, Nick Owenford, Lee Byford, Abdul Hakim Joy
Sceneggiatura: Krysty Wilson-Cairns
Fotografia: Chung-hoon Chung
Montaggio: Paul Machliss
Musica: Steven Price (II)

RASSEGNA PANORAMICA
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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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