Gli eventi dolorosi di Umberto Domenico Ferrari (Carlo Battisti, professore di Glottologia all’Università di Firenze, si cimentò in quello che fu il suo unico ruolo nel cinema) si aprono su di uno scenario d’impatto: un corteo di pensionati non autorizzato che richiedono l’aumento delle loro pensioni ridotte al minimo. Non vi è presente in queste sequenze una violenza sovversiva da parte dei manifestanti, ma semplicemente una richiesta disperata di uomini dignitosi che “hanno lavorato tutta la vita”.
A partire da questa veduta generale ci si avvicina alle vicende umane di Umberto, ex-funzionario al Ministero dei Lavori Pubblici, che ora si ritrova a fare i conti con uno stipendio di 18.000 lire e l’affitto troppo alto per una stanzetta in via San Martino della Battaglia n°14.
Tutto ciò che possiede sono il cane Flaik e una valigia con pochi oggetti personali che peraltro cerca di vendere per racimolare denaro per la padrona di casa che minaccia costantemente di sfrattarlo se non paga gli arretrati. L’unica che si dimostra comprensiva nei suoi confronti è la serva Maria (Maria Pia Casilio, esordiente, divenne un’attrice caratterista) ingenua ma schietta nella sua semplicità. Forse con Umberto condivide a suo modo il dramma dell’abbandono: essendosi trovata incinta e ignorata dai due uomini con i quali è stata, permane in lei il dubbio su chi sia in effetti il padre di suo figlio.
La trama si presenta in maniera assai lineare, ma si presta bene ad una narrazione sulla miseria dell’uomo, sulla sua solitudine e le sue difficoltà nel vivere giorno per giorno. Umberto è un uomo anziano ma che, in un’ottica neorealista, diviene come un bambino con una visione chiara e distinta delle cose e di come dovrebbero essere, mantenendo una grande dignità e purezza di fondo: si pensi a quando Umberto “scopre” con quanta facilità si possa ottenere del denaro compiendo l’elemosina, occorre un semplice gesto come quello di una mano tesa, ma che per lui risulta imbarazzante e troppo poco dignitoso. Lo accompagna nelle sue vicende l’instancabile e fedele Flaik, non un semplice cane da compagnia, bensì un motivo di vita che scuote il padrone dal “torpore” causato da quella rassegnazione che lo dovrebbe condurre al suicidio. Più umano di tanti altri uomini che circondano Umberto, Flaik ricorda il cane che segue in maniera costante il vagabondo squattrinato Charlot in “Vita da Cani” (1918), segno ulteriore dell’importanza fondamentale di questo rapporto ‘uomo-animale’ che diviene sopportazione e consolazione dei dolori quotidiani, andando oltre al comune “farsi compagnia”.
Altra spettatrice delle dolorose vicende è Roma, muta scenografia teatrale, fredda, imponente ed impotente, poiché nulla può di fronte alla sconfitta della società nei confronti di Umberto, al quale ha tolto qualsiasi dignità di vivere. La macchina da presa, quasi sempre molto vicina ai soggetti, coinvolge chi osserva l’azione in svolgimento in un turbinio di sentimenti, probabilmente gli stessi provati da Umberto o da Maria; il tutto filmato con agghiacciante realismo, doloroso ma necessario ai fini della narrazione.
“Umberto D.” è frutto dell’intensa e prolifica collaborazione artistica di De Sica con lo sceneggiatore Cesare Zavattini, il quale aveva già lavorato con il regista di Sora per titoli come “Teresa Venerdì” (1941) “I Bambini ci guardano” (1943) “La porta del cielo” (1944) e per quelli ad oggi considerati tra i capolavori del Neorealismo Italiano come “Sciuscià” (1946), “Ladri di biciclette” (1948) e “Miracolo a Milano” (1951). Ma nonostante la quasi unanimità della critica nel considerare “Umberto D.” una delle più significative produzioni di De Sica, all’epoca la pellicola fu al centro di alcune polemiche molto accese: in un’ottica storica, gli spettatori italiani dei primi anni ’50, già proiettati idealmente verso la promessa di una rinascita economica, si allontanavano in parte dai temi legati al cinema Neorealista; proprio in quegli anni e per quasi tutti gli anni cinquanta esplode il fenomeno circoscritto del cosidetto “neorealismo rosa” che assorbendo alcuni elementi narrativi e tematici del Neorealismo li porterà verso la tradizione della Commedia all’italiana, che mitigherà nuovamente gli elementi leggeri introducendo una profonda amarezza di fondo. Tra le critiche rivolte contro Umberto D. quella di Libertas, il settimanale della Democrazia Cristiana, che accusava il film di De Sica di esprimere un sentimento fortemente anti-Italiano. A scrivere l’articolo è un poco più che trentenne Giulio Andreotti, preoccupato di piegare il Cinema a strumento ancillare della propaganda Cattolica e disturbato da un’immagine dell’Italia, secondo lui legata sostanzialmente ad un’eccezione negativa.
Ma l’intento di De Sica è quello di allontanarsi da una certa visione “aristocratica” del cinema in generale cercando di andare dritto alla sostanza delle cose, e mettendo in luce, a più di un lustro di distanza da “Roma Città Aperta”, le caratteristiche di una società che non ha eliminato del tutto le contraddizioni del dopoguerra. In questo senso, Umberto D. negli anni della distribuzione massiva di opere Statunitensi nel nostro paese, alla vigilia dell’esplosione del nostro cinema di genere, già anticipata dalla produzione dei “Peplum”, più che un’opera fuori tempo massimo rappresenta lo “stato delle cose” della popolazione più svantaggiata, che De sica rappresenta senza mediazioni: “Accade così, nella vita dell’uomo” risponderà De Sica ad Andreotti “che alterna giornate tutte fortunate ad altre tutte avverse. Umberto D, per me, non va quindi considerato alla stregua di un caso limite”
Infine, occorre ricordare la dedica del film al padre, figura cruciale nella sua vita. È l’essenza stessa della pellicola ad attestare l’appartenenza di Vittorio all’universo artistico; “Umberto D.” è la maniera tutta particolare di un figlio di ringraziare il proprio padre per averlo spronato in quella direzione.