Umut è speranza, e di speranza questo film è pieno, fino a morirne.
Cabbar (Yılmaz Güney, regista e protagonista) è un povero diavolo analfabeta. Vive con cinque figli, una moglie e una vecchia madre in una catapecchia dove ogni sera ricovera calesse e cavallo, i suoi unici mezzi di produzione e sopravvivenza. Fa il vetturino alla stazione, sta lì dall’alba a notte, dormicchia sul sedile, aspetta che qualcuno si decida a spendere le due lire che chiede mentre taxi bianchi, carichi di passeggeri vestiti alla occidentale, vanno e vengono. Sul calesse, infatti, sale solo gente del popolo vestita alla turca.
Vita grama, debiti e fame, la figlia più grande piange coprendosi il viso con le mani, non ha superato l’esame d’inglese perché non ha potuto studiare come si deve, i piccoli si rotolano nel fango e la madre, sfinita, li rincorre col bastone.
“Maestro del cinema realista, era stato lui stesso ispirato dai neo realisti italiani – dice di lui Fathi Akin.- Penso per esempio ai suoi primi lavori, Umut, speranza. Ti viene in mente Ladri di biciclette, di Vittorio De Sica. Ma anche Accattone di Pier Paolo Pasolini. Il cinema turco di oggi ha in sé questo realismo secco e asciutto, la capacità di dire molte cose con poche scene.”
Ma può esserci una condizione umana ancora più derelitta di quella dei borgatari di Pasolini, che pure tornano alla mente per quel bianco e nero spettrale che fotografa, annullandoli, i confini di questa internazionale della miseria.
I piccoli anti-eroi di Guney possono essere perfino più miserabili di quelli di De Sica, per Cabbar la bicicletta sarebbe già un lusso. Una carrozza sbilenca e un cavallo ancora da pagare, magro per poca biada e parecchie frustate, è tutto quel che ha.
Oltre alla speranza, naturalmente, umut.
Tenta spesso la fortuna alla lotteria, Cabbar, ma poi deve chiedere a qualcuno che gli legga le estrazioni sul giornale, è analfabeta. Forse, chissà, la sorte può cambiare, lui ne è convinto, e certo lo farà, ma in peggio, il giorno in cui un’automobile prenderà sotto il cavallo parcheggiato in zona vietata e lo manderà nell’aldilà dei cavalli.
Al commissariato lo sventurato Cabbar, curvo e umile col suo berretto in mano, rischierà anche di dover pagare i danni all’automobilista, ma poi il commissario e il panciuto borghese, mossi a pietà, decideranno di lasciarlo andare. E intanto bevono piacevolmente tazze di thè servite dall’appuntato mentre Cabbar guarda in silenzio.
Lo lasciano andare, dunque, ma dove? Ora che non ha più mezzi di sussistenza a Cabbar resta solo la speranza, umut, appunto.
Qualcuno ha detto che la speranza è una cosa infame, una trappola inventata dai padroni, ma lui non lo sa e cadere nelle trappole di chi vuole che l’ordine sociale non venga alterato è molto facile.
Non si profila una presa di coscienza di classe per Cabbar, membro a buon diritto di quel sottoproletariato che affolla le periferie del mondo, là dove ignoranza e miseria alimentano falsi miti e si nutrono di facili prede come lui.
Religione e superstizione hanno ora una nuova pedina con cui giocare, il miraggio di una ricchezza sicura, fatta balenare dai discorsi stravaganti di un “hoca”, stregone imbonitore che il suo amico (Tuncel Kurtiz) segue con fiducia fanatica, è a portata di mano.
Anti-Prometeo per definizione, lontano anni luce dall’urlo goethiano che maledice Zeus, … credevi tu forse che avrei odiato la vita, / che sarei fuggito nei deserti / perché non tutti i sogni / fiorirono della mia infanzia?… l’uomo di Guney fugge invece proprio nel deserto e lì impazzisce, nella ricerca sterile di quel tesoro sepolto che diventerà presto la buca della sua tomba.
Nell’oppressione e nell’inferiorità in cui vive Cabbar, personaggio a cui Guney in veste di attore fornisce una recitazione intensa e struggente, si rispecchia la condizione di un popolo senza nazione e di una nazione senza sovranità nazionale che è la sua. E’ il popolo del Kurdistan, Paese negato anche dalle carte geografiche, abitato da 30 milioni di persone sparse tra Iraq, Iran, Armenia e Siria.
Umut è la parola ingannevole che Guney pone fin dal titolo, come a marchiarlo. Parola disonesta, usata per annullare la rabbia giusta di un popolo lasciato a girare su sè stesso nella speranza del nulla, smarrimento e perdita di sè è tutto ciò che è in grado di produrre.
Neppure la musica aiuta. Manca a Umut l’apporto sacralizzante che la musica di Bach conferiva agli umili di Pasolini, la musica che sollevava Accattone morente dalla polvere al cielo. Umut è l’immedicabile lacerazione nel corpo inerme di un popolo vinto.