Bisognerebbe rendere obbligatoria la lettura di “On documentary” di John Grierson nelle scuole, soprattutto quelle di cinema. Tutt’altro che datati, gli studi del documentarista e teorico scozzese, così importanti per il Free Cinema inglese e per una manciata di autori come Alan Clarke e Ken Loach, contengono alcuni spunti per tenere a distanza il manicheismo di certa scrittura critica che non riesce a comprendere l’ambiguità di un’espressione come “cinema del reale”.
Stéphane Brizé, acuminato autore francese, tra i più significativi dell’ultimo decennio, se condividesse qualcosa, per esempio, con la scrittura di Loach, potrebbe risiedere nello sguardo antropologico delle sue prime opere (Kes, Family Life etc.), per differenziarsi nettamente da quelle prodotte tra gli anni ottanta e i novanta, quando il cineasta britannico ha cominciato ad anteporre un’accecante visione ideologica dalle caratteristiche affabulatorie e a tratti favolistiche, dove sovente, gli unici a “piangere”, sono i partigiani e tutti quei personaggi che rientrano in una certa retorica cultuale, dai tratti quasi “mistici”.
Per questi ed altri motivi, lo sguardo di Brizé, così attento agli elementi minimi del gesto, ci sembra casomai vicino alle opere più aspre di Alan Clarke, oppure alla visione transtorica di Peter Watkins, senza accelerare sul pedale di una sperimentazione esibita, ma al contrario, elaborando uno sguardo che è sempre il risultato della relazione tra corpo e ambiente, gesto e parola.
È da Entre adultes che Brizé, con un rigore davvero spiazzante, marca stretto la vita quotidiana, servendosi di una fenomenologia delle relazioni interessata a rivelare gesti scarnificati fino alla loro più cruda essenzialità. Sono proprio i sentimenti denunciati nella loro essenza, a rivelarsi in realtà irraggiungibili. La collaborazione costante con Vincent Lindon, gli ha proprio consentito di sperimentare un vero e proprio assorbimento delle qualità “fisiche” e potenziali dell’attore, calato dentro l’involucro ambientale, gabbia che stritola e depotenzia la stessa idea di performance. Lo scriveva chiaramente e in modo molto preciso Michele Faggi: “l’impostura del lavoro viene individuata da Brizé come una regola che definisce tutto il tempo e tutto lo spazio, senza consentire alcuna rottura e osservando l’intera comunità come parte integrante di una ripetizione coattiva“.
Non deve allora stupire che nel percorso delineato da una trilogia che ha visto Vincent Lindon interpretare prima un lavoratore responsabile del personale in qualità di guardia giurata, poi un colletto blu con mansioni sindacali, l’ultima stazione sia dedicata ad un dirigente d’azienda.
Per Brizé non si tratta dell’altra parte della barricata, ma di un medesimo sistema di potere, pervasivo e regolato come una mostruosa macchina celibe, capace di riempire l’esistenza con la meccanicità causale dei gesti, per spogliarla da qualsiasi altro afflato.
Difficile pensare che nei confronti di Philippe Lemesle, il direttore di stabilimento in “Un autre monde“, vi sia maggiore o minore empatia rispetto ai personaggi di La loi du marché e En Guerre, perché il metodo è il medesimo e non consente, fortunatamente, di sovrapporre un giudizio morale, come piacerebbe a certa critica volgare, se non attraverso l’osservazione precisa delle relazioni all’apice di una disgregazione che ha radici più profonde.
A conferma di un raggelamento emotivo, tipico del suo cinema, la direzione della fotografia di Eric Dumont stabilisce una continuità precisa con i due film precedenti della trilogia, elaborando un percorso molto simile con l’utilizzo della camera a mano, ma introducendo alcune differenze che rappresentano un evoluzione di quel discorso.
L’elenco delle proprietà di Lemesle e della moglie, declamato in modo puntuale dagli avvocati divorzisti introduce il film proprio in questa luce; il dramma di Philippe è assolutamente comune a quello di altre persone nelle modalità in cui la disgregazione colpisce il suo mondo.
Brizè accumula una serie di sottotrame, tra cui quella del figlio della coppia colpito da una grave disfunzione comportamentale, con la stessa “indifferenza” analitica che ci mostra il funzionamento endogeno dell’impresa, dove emerge un solo gruppo di vincitori identificato dal ruolo degli azionisti, evidentemente il vero cancro sistemico per Brizè.
Il lavoro svolto con lo sceneggiatore Oliver Gorce va proprio in questa direzione, immergersi in una realtà specifica, come era accaduto per La loi du marché e assumerne un punto di vista interno, più che interiore. Per questo sceglie di creare un parallelo che non è simmetrico, ma causale, tra il naufragio personale di Lemesle e quello delle 56 persone dell’azienda che dirige, sospese sul baratro del licenziamento.
Nelle interviste preparatorie che Brizé e Gorce hanno elaborato, incontrando i CEO di numerose aziende, il piano decisionale è risultato il più compromesso. Chiamati ad eseguire ordini, coloro che hanno pensato, si sono immaginati e a loro volta sono stati immaginati anche dagli stessi media, come un vero e proprio braccio armato delle aziende, si sono in realtà rivelati come strumenti “collocati tra incudine e martello“.
Chiarissimo quanto a Brizè la figura di Lemesle serva per poter nuovamente mettere al centro un personaggio intrappolato, per capirne resilienza e capacità reattive rispetto agli sconvolgimenti tellurici che lo colpiscono.
C’è anche un cambiamento rispetto al cinema apparentemente “en directe” di Brizè, perché quel senso di accerchiamento che nei suoi precedenti film era una conseguenza, qui viene anticipato da una moltiplicazione del punto di vista soggettivo, allestito per accentuare la prigione sociale e cognitiva in cui Lemesle si trova.
Brizè stesso ha detto di aver moltiplicato gli angoli di ripresa, e di aver evidenziato la tecnica dei falsi raccordi per sottolineare la mancanza di respiro e il soffocamento che si stringe attorno al personaggio: “alla fine– ha dichiarato il regista francese – l’osservazione ci permette di lasciarci alle spalle la dialettica riduttiva dei cattivi manager contro i buoni operai, per rivelare un problema sistemico che va ben oltre le posizioni di ciascun individuo.”
L’altro mondo del titolo, una possibile parodia del fideismo anti-globalista, assume valenze combinatorie, non solo perché individua possibili alterità dove l’antagonismo più becero non rileverebbe alcuna possibilità di mediazione, ma soprattutto per una valenza che rimane irrimediabilmente fuori campo, con l’idea Foucaultiana di circolarità del potere che preme dai margini e investe tutto il sistema, anche quello famigliare.
Un autre monde di Stéphane Brizé (Francia – 2021 – 96 min)
Interpreti: Vincent Lindon, Sandrine Kiberlain, Anthony Bajon, Marie Drucker
Sceneggiatura: Olivier Gorce, Stéphane Brizé
Fotografia: Eric Dumont
Montaggio: Anne Klotz
Scenografia: Pascal Le Guellec
Costumi: Isabelle Pannetier
Musica: Camille Rocailleux
Suono: Emmanuelle Villard, Hervé Guyader