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Un volto, due destini – I Know This Much Is True di Derek Cianfrance: recensione

Nel mondo analogico, poroso, in 35mm di I Know This Much Is True, Cianfrance realizza il miracolo del massimo dell’empatia, frapponendo al contempo una distanza demiurgica tra l’al di qua e l’al di là dello schermo che, forte di un importante apparato simbolico, non vanifica l’enorme investimento emotivo richiesto a chi guarda: un fiume in piena da cui bisogna avere il coraggio di lasciarsi attraversare. La rcensione della miniserie HBO diretta da Derek Cianfrance

La famiglia come spazio obbligato di amore smisurato e sconfinata sofferenza, le tensioni contrastanti e le occorrenze imprevedibili come motori di relazioni tutte giocate entro un universo temporale governato dal destino, il recupero di una memoria privata che illumini o presagisca, adombrandolo, il presente emotivo: tante sono le cifre che nella loro ostinata compresenza hanno reso negli anni riconoscibile l’idea melodrammatica – nella più classica e nobile delle accezioni, alla Sirk – che del cinema continua ad esprimere Derek Cianfrance, dal primo lungometraggio, il puro e bellissimo Blue Valentine, fino all’ultimo lavoro seriale, il più maturo e cupo I Know This Much Is True, adattamento del romanzo di Wally Lamb.

Ribattezzata con il soapoperistico “Un volto, due destini” da una distribuzione italiana che non riesce ad intercettare il proprio pubblico di riferimento, la miniserie HBO in sei puntate scritta e diretta da Cianfrance è quanto di più lontano dalle ridondanze che tipicamente percorrono una struttura televisiva aperta come quella della soap.

Le ripetizioni di un dolore indicibile, l’escalation delle catastrofi macro e microscopiche patite dai protagonisti, lungi dal ramificare potenzialmente all’infinito il percorso narrativo, ribattono sul solo telos – il ruolo del destino è giustamente centrale – in direzione del quale può fluire la storia. Ogni possibilità di deviazione rispetto a un martirio inevitabilmente già scritto è annichilita, e l’approdo, che la vita prosegua oppure no, è definitivo. L’amore nasce dal perdono, la prova dell’esistenza di Dio sta tutta nelle relazioni tra gli uomini: “so che questo è vero”, e non ci può essere un altro episodio.


Così, in un Connecticut del tutto simile ai tanti orizzonti suburbani che da tempo sono sullo schermo lo scenario privilegiato per la messa in scena delle contraddizioni tragiche scaturite dallo schianto del sogno americano contro il reale, non luogo in cui la quotidianità è un fardello da sostenere o una colpa da redimere – si va da Revolutionary Road a Manchester by the Sea, solo due tra gli esempi più emblematici – si consuma la parabola dei gemelli Birdsey, e la doppia incredibile performance del loro interprete Mark Ruffalo.

L’imminenza della prima Guerra del Golfo catalizza le angosce di Thomas, schizofrenico paranoide, anima fragile da proteggere e custodire, ma pure presenza imponderabilmente ingombrante nella vita del fratello Dominick, logorato dal senso di responsabilità e dal troppo amore, oltre che da una serie ininterrotta di congiunture drammatiche: una figlia perduta e una madre malata, una ex moglie ferita ma amatissima e una giovane fidanzata emotivamente assente, un padre ignoto e un patrigno violento, più una catena sterminata di coincidenze terribili.

L’elenco, peraltro incompleto, mette in luce in maniera lampante il pericolo incontro al quale va Cianfrance: allontanarsi dal verosimile per crogiolarsi in una compiaciuta, lenta e insostenibile pornografia del dolore. Per chi scrive, tuttavia, siamo lontani da quei territori. Al netto di un eccesso di temi in ballo – attorno al fulcro della malattia mentale ruotano accenni impressionistici all’Aids, agli abusi negli istituti psichiatrici, alla discriminazione razziale – e di una consapevolezza autoriale a tratti troppo esibita – l’excursus con Marcello Fonte sulle origini italiane dei Birdsey è una zavorra che al quinto episodio appesantisce senza sconti il flusso catartico del racconto, c’è un fondo commovente e rarissimo di verità in questo viaggio dentro la voragine di un uomo.

È di Dominick, infatti, il punto di vista abbracciato dalla macchina da presa, è sulle espressioni minime e tanto dense di sfumature del suo volto che si posa lo sguardo ipersensibile di Cianfrance, è attraverso gli occhi del Ruffalo più compassato e vigile che vediamo le nevrosi dell’altro Ruffalo dall’espressione stanca e gonfia di tormento che gli dice: “tu sei me”.

E allora nei silenzi interstiziali tra le parole, nei respiri di una scrittura aderente alle cose, si coglie l’urgenza di un cinema sincero perché personale, un cinema che paradossalmente conforti dallo sconcerto della vita vissuta da cui esso stesso trae nutrimento.

Nel mondo analogico, poroso, in 35mm di I Know This Much Is True, Cianfrance realizza il miracolo del massimo dell’empatia, frapponendo al contempo una distanza demiurgica tra l’al di qua e l’al di là dello schermo che, forte di un importante apparato simbolico, non vanifica l’enorme investimento emotivo richiesto a chi guarda.

Nell’impulsività di una domanda o di un gesto, nell’errore colpevole o inconsapevole, negli equilibri tra le ossessioni più minuscole che regolano i legami scelti o imposti tra le persone, lì sta sempre la spiritualità che regge l’universo intero.

Si tratta di un fiume in piena da cui bisogna avere il coraggio di lasciarsi attraversare, per ricordarci che come noi, nell’impero degli individualismi, sono tanti o tutti gli uomini persi tra i boschi della vita. Non uno, non due, tutti “lost in the woods”.

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