Kornél Mundruczó, negli anni assiduo frequentatore di festival, ha abituato il pubblico a dividersi di fronte ai suoi film: innegabilmente ambizioso e istrionico, si colloca sempre in bilico tra trovate brillanti e pretenzioso manierismo. L’originalità e la portata provocatoria del suo cinema sulla carta è innegabile, la riuscita o meno sullo schermo è dipesa e dipende da una capacità ancora altalenante di dare sostanza e coesione a buone intuizioni di partenza.
Lo stesso White Dog – Sinfonia per Hagen, vincitore a Cannes della sezione Un Certain Regard nel 2014, invito alla tolleranza nel suo fare di un branco di randagi i portabandiera delle cause degli ultimi, tenuto in piedi da un potente apparato simbolico, rischia comunque più e più volte, ossessivamente citazionistico, di perdersi dietro al compulsivo accumulo di forme e generi in un unicum che fatica ad essere solido.
Se viene a mancare anche una linea guida, è inevitabile che i piani si sfaldino. Esattamente quello che accade nell’ultima fatica del regista ungherese, Jupiter’s Moon, italianizzato nel didascalico Una luna chiamata Europa.
Giove ha sessantasette lune conosciute, una delle quattro più grandi, Europa, sembra essere ricoperta da un oceano, culla di possibili forme di vita. Aryan Dashni (Zsombor Jéger), giovane siriano in fuga dalla guerra, cerca di raggiungerla insieme a suo padre. Il nome sbiadito di una stazione sopra a un fazzoletto è una promessa di libertà così grande da spingerli contro ogni barriera alzata loro, addosso a un esercito di cecchini pronti a dare la caccia all’uomo sulle rive paludose del Danubio.
L’incipit sembra collocare il film in una dimensione post-apocalittica metafora di un dramma sociopolitico attualissimo. Mundruczó invece complica ulteriormente un quadro già di per sé difficile da sostenere con credibilità: quello che segue apre infatti a scenari differenti, svolte sci-fi, attitudine documentaristica e un certo realismo magico, che si accavallano l’uno sull’altro senza che nessuno di essi venga sviscerato dal profondo e sviluppato compiutamente.
Al termine di una corsa frenetica tra i boschi, dopo aver perso di vista suo padre, Aryan viene trafitto da un colpo di pistola e diventa inspiegabilmente in grado di levitare. La macchina da presa ne segue da qui in avanti i movimenti invertendo di continuo, virtuosisticamente le prospettive, come di continuo il regista inverte la rotta del film, strozzato ogni qual volta sembri poter arrivare al punto di autoaffermarsi.
La storia abbandona fin da subito quella sfumatura distopica che pare di scorgere inizialmente calandosi nel contesto urbano di Budapest, dove Gabor (Merab Ninidze), un medico radiato dall’albo e venuto a conoscenza delle capacità straordinarie del ragazzo, lo prende sotto la sua egida per ricavarne profitto presentandolo come angelo agli occhi dei malati.
Mentre il film imbocca gradualmente anche la via dell’action thriller e Mundruczó, pur tratteggiando il profilo di una città viziata nel duplice senso di irrespirabile e corrotta, si perde dietro a inseguimenti da manuale, tanto tecnicamente perfetti quanto impersonali, tra Gabor e Aryan si instaura un rapporto che, nato come surrogato di due mancanze, riempitivo delle rispettive solitudini, raggiunge infine l’autenticità di un legame padre-figlio.
Se da una parte a tenere viva l’attenzione è la curiosità di vedere in che modo l’autore, spintosi oltre la soglia di non ritorno, riesca a tirare le fila del discorso, dall’altra, è proprio agli interpreti che si deve rendere grazie, oltre ogni retorico invito ad alzare lo sguardo. A Ninidze in particolare, cui riesce di dare spessore a un personaggio intriso delle frustrazioni del proprio tempo ma quasi classicamente stagliato al di sopra di esso, a margine di un contesto filmico in cui si faticherebbe ancor di più a calarsi se non fosse per il familiare, umano sentire di Gabor, recriminabile o redento che sia.