Il cinema ci tocca, o meglio, dovrebbe toccarci. Sbarazzandoci della supremazia dell’occhio, come facciamo spesso da queste parti con una serie di tentativi imperfetti, spesso regolati dalla velocità ma onestamente fuori dal regime grammaticale delle accademie, proviamo a sperimentarli altri sensi che non siano quelli esclusivi della visione, se non nella possibilità che questa stimoli altre forme oppure che sia stimolata a sua volta. Ecco che il cinema forse ci tocca superando l’idea di sinestesia per sfiorare quella di incorporamento vissuto e inteso come risonanza diretta del corpo con l’esperienza cinematografica. La stessa logica grammaticale a cui accennavamo ci obbligherebbe in modo troppo limitato, a demarcare corpo soggettivo e immagine oggettiva, ovvero ad individuare l’aspetto sensuale sullo schermo, come proprietà semantica, oppure fuori, come formazione psichica dello spettatore.
Hard to be a god, l’ultimo film di Aleksey German, completato dopo la sua morte dal figlio Aleksey German Jr. ci spinge ad affrontare una dimensione aptica, sfalsando continuamente l’occhio soggettivo, con una penetrazione senza fine nello spazio fisico, trasformando la visione in una viva e terrificante esperienza dei corpi, tra cui è coinvolto anche il nostro.
Under Electric Clouds entra in un abisso simile scandagliando una terra sull’orlo del collasso, non è la fantascienza di Boris Strugatskiy elaborata come luogo senza durata destinato al solo atto creativo/distruttivo di una decomposizione organica e brulicante, ma è afflitto dalla stessa stasi e sopratutto dal vagare dei corpi che attraversano un paesaggio apocalittico dove i resti materiali e monumentali delimitano il percorso della storia Russa attraverso quella dell’arte. Dal culto della tecnica alla funzionalità della macchina, dall’astrattismo alla perdita di ogni contatto con l’utilità, i corpi di “Under Electric clouds” sono disperati, vaganti, caracollanti, schiantati o travolti dalla furia delle intemperie; sono colti in uno stato transizionale come degli “Stalker” appena un momento precedente alla marcescenza di “Hard to be a god”. In attesa di salvarsi o di estinguersi, cercano un contatto vivo con la creatività, agganciati ai resti defunzionalizzati di un potere senza più alcun riferimento, resistono al male con un gesto, mentre la città si sfalda.
Il cinema di Aleksey German Jr. come quello del padre, è un cinema tattile fatto di corpi ancora vivi, perché mentre l’esperienza del mondo si dissolve in un luogo di antimateria negativa, con questa anche i limiti del set scompaiono. Non rimane altro che una presenza sensoriale vicina al cinema di Sokurov e che individua, per prendere in prestito una definizione di Merleau-Ponty, la reversibilità del tangibile e del visibile, uno spessore tra chi vede e il corpo visto.