Roland Barthes dedica un articolo al parigino “Le Palace” nel 1978. Lo pubblica Vogue Hommes con il titolo di “Au “Palace” ce soir”. Più di un resoconto è analisi semiotica e percettiva di uno straordinario luogo transitorio, decifrato con lo sguardo di chi può sovrappone storia, memoria letteraria ed esperienza collettiva.
Era il 1977 quando l’impresario Fabrice Emaer acquistò l’imponente music hall costruito in Rue du Faubourg-Montmartre nel 1895. La riapertura come discoteca pronta a confrontarsi con il newyorchese Studio 54 è dell’anno successivo, ed avviene nel segno di una sovrapposizione di stimoli culturali assolutamente unica nell’Europa di quegli anni. L’illuminotecnica laser frammenta l’originario spazio Art-Deco, creando un ambiente sospeso tra reale e virtuale, dove la dimensione teatrale della struttura espanderà la scena in ogni direzione. Non solo l’oro, il rosso e il nero dei costumi creati per il personale dall’allora trentenne Thierry Mugler, ma lo stesso contrasto cromatico che si riverbera nelle luci, negli ambienti ed infine nei grandi affreschi di Gérard Garouste.
Barthes assume il punto di vista del narratore proustiano per dissolvere il mondo reale nel sogno. Solo così riesce a percepire la sovrapposizione tra antico e moderno, immergendosi nell’opacità delle luci destinate al clubbing coevo che confondono le sagome del pubblico e dei ballerini. La finzione mnestico-letteraria gli consente di osservare “Le Palace” come un tempio destinato alla ritualità collettiva, dove il desiderio di un’arte totale di ascendenza Wagneriana, trasforma il luogo in opera d’arte a se stante, tra il tempo perduto e quello mai stato.
Eva Ionesco comincia a frequentare il grande club a tredici anni, dopo esser fuggita prima dal controllo della madre Irina, poi da quello dei servizi sociali, dai quali si affrancherà completamente tre anni dopo grazie al matrimonio con il suo primo fidanzato, Charles Serruya, pittore e scultore dell’immateriale. Le illustrazioni e la ritrattistica neo-romantica di Christian Bérard, la pittura di Jean Cocteau insieme alla cultura post-punk e al retro-futurismo della new-wave che reinventa lo spazio grafico e iconologico degli anni ’40, confluiscono nell’arte illusionistica di Serruya fatta di luci, ombre e fili d’acciaio modellati per catturare una dimensione tra forma e aria. La stessa convergenza che anima le notti a “Le Palace” e coltiva quel milieu di giovani stilisti, giornalisti, decoratori d’interni, musicisti, DJ che influenzeranno trasversalmente le ibridazioni pop del decennio successivo. Gli amici di Eva hanno i nomi di Djemila Khelfa, Christian Louboutin, Vincent Darré, Paquita Paquin, Philippe Krootchey e rappresentano la sua età aurea, un’inebriante opportunità formativa che si contrappone alla relazione “abietta” con la madre Irina, sospesa tra amore e abuso.
“Une jeunesse dorée” inizia dove finiva “My little princess” , nel segno di una fuga senza soluzione di continuità. Il controllo della madre di Violetta è lontano, mentre l’ansia di libertà della diciassettenne Rose dagli obblighi del riformatorio segue le tracce della nuova “banda” di amici che si muovono intorno a “Le Palace”, attraverso l’amore per Michel, pittore emergente di talento.
L’autofiction di Eva Ionesco giunge al secondo capitolo di una trilogia annunciata e persegue con rigore lo scambio fecondo tra autobiografia e invenzione, per tenere a distanza qualsiasi filtro moralista e giudicante su un percorso altrimenti controverso e doloroso. Riappropriarsi di un’immagine violentemente strappata alla sua volontà, per costruire una mitopoiesi personale, al centro di un fermento culturale importante che coincide con l’emancipazione da un’adolescenza difficile, ma anche con la capacità di esorcizzare i propri fantasmi attraverso la forza del racconto.
Barthes apre le porte dello storico club parigino sovrapponendo il suo sguardo a quello del Proust narratore; a rivelarsi è il teatro, quello recuperato e preservato nella sua interezza a partire dalla ristrutturazione del 1925, ma anche uno spazio sottoposto al dominio immateriale e polimorfo delle luci, tanto da espandere a tutta la struttura le possibilità circoscritte del palco. Quando lo spazio iniziatico della rappresentazione si apre alla fruizione collettiva, ecco che il semiologo francese individua nella radice greca del termine “teatro” le peculiarità del “Le Palace”, irrimediabilmente legate ad una prassi scopica estesa. Vedere, vedersi, vedersi visti.
Sembra che la Ionesco segua questo percorso, cancellando le suture tra realtà e illusione, per dissolvere la frattura tra ruolo e vita, dalle scene allestite per Violetta alle numerose incorporazioni che si manifestano negli ingressi e nelle uscite funamboliche di Rose dallo spazio performativo condiviso.
La Ionesco riflette solo in parte la sua immagine sul corpo, sul volto e sulla postura di Galatea Bellugi, tanto da impedirle di vedere “Journal d’une maison de correction”, il film di Georges Cachoux ambientato proprio in un istituto di correzione minorile, che l’attrice e regista francese aveva interpretato durante gli anni ottanta. Senza modellarne un doppio, sfrutta le qualità di quel volto ancora acerbo “con lo sguardo malinconico di una donna adulta”, in opposizione all’erotismo già maturo di una fisicità ribelle ed esplosiva.
Rose subisce ancora le dipendenze di un’adolescente quando osserva il mondo attraverso le potenzialità del fidanzato, ma se ne libera un momento dopo nel sovrapporsi dell’interazione sociale con la scena teatrale, dominando un luogo che si ripropone all’infinito, nel gioco mutevole del desiderio. Immaginario e vita non trovano conciliazione e il racconto di formazione della Ionesco ferisce proprio quando non si cicatrizza.
“Cattivi” maestri per Rose e Michel sono Lucille e Hubert Robert, due personaggi inventati dalla Ionesco, ma nei quali confluiscono altri elementi di un vissuto sul bordo, tra gioia di vivere e dissoluzione. Lei ricca e amante dell’arte, attrae giovani creativi nella sua grande villa, instaurando un rapporto ambiguo e di progressiva dipendenza amorosa, mentre cerca di imitare il mecenatismo di Marie-Laure de Noailles. Lui, il cui nome e le attitudini ricordano quelle di un noto personaggio nabokoviano, è uno scrittore fallito e mantenuto. Dedito all’oppio, all’alcool e al consumo di cocaina, vive come un bohemienne tra quelli più giovani di trent’anni del “Le Palace”, nel segno della libertà assoluta e di quel compiacimento ricercato nella contaminazione di un frutto acerbo con i germi della marcescenza.
Il rapporto a quattro che si stabilisce tra le due coppie, non scivola mai in quella zona grigia che tutto assorbe e distrugge, mantenendo un livello di umana tragicità nel travaso continuo di energie, gelosie, possesso e distacco. Isabelle Huppert e Melvil Poupaud incarnano due figure malinconiche e affamate di vita, come vampiri sorpresi dall’ombra della vecchiaia, orizzonte negativo da cui cercano disperatamente di non farsi ghermire.
La Ionesco sceglie lo Château de Groussay come location per la villa, quasi per creare un’incorporazione palindroma tra spazio teatrale e realtà. Acquistato alla fine degli anni trenta dal collezionista e decoratore d’interni Charles de Beistegui, nasconde al suo interno un teatro costruito sul modello di quello barocco dell’opera dei Margravi situato a Bayreuth. Dominato da tendaggi e tessuti rossi, riprende la gamma cromatica del “Le Palace” re-immaginato dalla Ionesco e fotografato da Agnès Godard, aprendosi allo sguardo pieno di meraviglia di Rose, mentre Hubert Robert da buon impostore marcito nella cultura della vecchia Europa, ha già impostato la scena, collocando su una delle sedie a centro palco una copia di “Point de lendemain” di Vivant Denon, caposaldo della letteratura libertina del diciottesimo secolo e delicato manuale di manipolazione della coscienza, speculare alla versione infernale e sadiana delle seduzioni immaginate da Choderlos de Laclos.
Nonostante la densità di riferimenti, la Ionesco non insiste su questi aspetti, ma li cala naturalmente in uno spazio che Galatea Bellugi attraversa con indolente o gioiosa sofferenza, attivando quella qualità stridente che lo stesso Hubert indirizza allo “sguardo di una martire”.
Più interessata alla dimensione sovversiva del gioco, Eva Ionesco costruisce uno spazio fluido che si apre continuamente alla fuga di Rose e al suo continuo disadattamento rispetto alla dimensione sociale che sottende.
L’educazione sentimentale e immoralista di Lucille e Hubert consente a Rose di interpretare il distacco e la separazione come possibilità di crescita, proprio quando la distruzione esplicita e teorica di tutti i tabù diventa dolorosa come la morte per la coppia di libertini, terrorizzati dalla solitudine.
C’è una temporalità multipla nel cinema della Ionesco, che procede dalla cronologia biografica stabilita dai due film dell’annunciata trilogia, fino ad una disseminazione di elementi autonomi che le consentono di creare nuovi personaggi, aderenti e distanti da qualsiasi continuità mitopoietica.
Truffaut certamente, ma con un avvicinamento spesso bruciante alla carne e al riflesso della propria vita. Senza cedere all’ambiguità manipolatoria di certe autofinzioni che giocano in modo sin troppo calcolato sulla confusione dei piani di realtà coinvolti, Eva Ionesco modella, poi attrice ed infine regista, disassembla un’immagine di se stessa già multipla e frammentata, attingendo in modo onesto dalla propria vita e moltiplicandone le possibilità generative. Oltre al libro “Innocence”, estensione autobiografica più diretta rispetto a “My little princess”, c’è una ramificazione famigliare sempre viva che alimenta il suo cinema in forma combinatoria, per esempio la collaborazione con il compagno e sceneggiatore Simon Liberati e quella con il figlio Lukas Ionesco, presente in entrambi i film dell’autrice francese. In “Une jeunesse dorée” si crea un avvitamento chiaro, ma assolutamente aperto al possibile tra Lukas e il padre Charles Serruya, la cui vicinanza è somatica e allo stesso tempo evanescente come le ombre proiettate sul muro dalle sagome che Michel ha ritagliato per giocare con Rose.
La vita dov’è allora, nelle letture di Hubert o nella potenzialità del “No tomorrow” Denoniano che Rose non ha letto, ma che già la include in una narrazione parallela?
Emerge, la vita, tra la fuga di Rose verso la scuola di teatro, come legittimazione del proprio ruolo entro una rappresentazione altrimenti continua e infinita e quell’incredibile quarto stato di freak che la Ionesco inquadra più volte come umanità “diversa” e vivissima, guidato dal passo marziale di Lucille, ma anche durante il numero di Rose che balla su uno dei mambos peruviani arrangiati da Les Baxter per Yma Sumac.
“Une Jeunesse dorée” è un atto d’amore intensissimo nei confronti del popolo che ha calcato la “scena” del “Le Palace”; mai riconciliato, in termini morali e identitari, porta con se i segni della differenza, quelli che Barhtes individuava nelle finzioni di più culture e allo stesso tempo, nell’ebollizione di corpi e luci.
Se il post-punk ha lasciato tracce che possiamo capitalizzare, oltre la dimensione anestetica della nostalgia, Eva Ionesco le ha riconosciute in questo incredibile incubatore di stratificazioni culturali, corpo teatrale eccentrico la cui forza era quella di rendere l’evento, momento incandescente.