Le donne dei film di Laura Bispuri non parlano quasi mai, esprimendosi attraverso altri codici. In “Passing time” e “Biondina“, due dei corti realizzati dalla regista romana, sono il gioco paradossale che rovescia la percezione della morte e il gesto anarchico a spezzare gli argini delle convenzioni; non una fuga dal reale ma dall’ordine delle famiglie, come “le figlie prodighe” di Alice Ceresa, forse meno feroci e alla ricerca di un proprio spazio affettivo, ma ugualmente tese verso la definizione di una soggettività che possa eccedere l’appartenenza alle istituzioni.
La fonte d’ispirazione per Vergine Giurata è il romanzo omonimo di Elvira Dones, racconto di formazione che prende vita da quel complesso di leggi riconosciute come patrimonio costituzionale dall’Albania clanica del nord, nate anticamente per difendere l’identità del popolo dall’invasione dell’impero Ottomano e tuttora influenti per la comunità. Le regole del “Kanun” intervengono in materia di diritto civile e penale, identificando proprio nella famiglia una delle istituzioni chiave entro cui esercitare la legge.
Quello che interessa alla Dones e a Laura Bispuri è il ruolo delle donne entro i confini di un ordine fortemente patriarcale, spinto in una posizione di totale subalternità, tanto da consentire l’omicidio in caso di adulterio oppure il ripudio se la donna accolta come moglie si rivela infeconda nell’arco di un periodo prestabilito. Ma “Vergine giurata” parla di un aspetto specifico del “Kanun”, ovvero la possibilità offerta alla donna di autoproclamarsi uomo nel caso in cui una famiglia si fosse trovata senza alcun erede maschio. Tutte le attività e il potere concessi all’uomo vengono trasferite alla donna prescelta dietro giuramento di verginità, una vera e propria trasformazione identitaria forzata che coinvolgeva l’abbigliamento, la vita comune insieme agli uomini, l’arte della caccia e quella della guerra.
Su questa declinazione illegale del diritto, non riconosciuta ufficialmente ma tramandata come una vera e propria coscienza giuridica dei montanari albanesi, tanto da essersi innestata culturalmente per lungo tempo come ostacolo fortissimo al riconoscimento dei diritti delle donne in quei luoghi, Laura Bispuri partendo dal romanzo della Dones, elabora una riflessione che non è strettamente etno-antropologica, ma un lavoro di scavo “situato nel corpo” (per usare una Definizione di Donna Haraway) ovvero, l’idea che la conoscenza sia in qualche modo interconnessa a pratiche materiali e politiche incarnate.
La storia di Hana costretta a diventare Mark, nel libro della Dones si svolge in un arco di tempo circoscritto tra la fine degli anni ottanta e l’inizio del nuovo millennio; dal piccolo villaggio sulle montagne albanesi si rifugia in America per recarsi da una cugina, così da sfuggire alle regole del “Kanun” da lei scelte come via d’uscita ad un matrimonio combinato.
Laura Bispuri, al contrario, non definisce temporalmente la storia di Hana, toglie tutti gli elementi che precedono la scelta di affidarsi al “Kanun” ed elimina i numerosi riferimenti alla poesia che la Dones inserisce nel romanzo con una doppia funzione diegetica e metadiscorsiva; quello su cui lavora la regista romana è uno scavo silente, durissimo, che elide la parola oppure la riduce ad un elemento funzionale alla realtà petrosa dell’immagine, senza ricorrere ad un surplus didascalico di poeticità, ma lasciando che questa emerga dal corpo e dal gesto, dai graffi sulla schiena di Alba Rohrwacher, dalla costrizione come immagine che contiene, visivamente e “direttamente”, il suo rovescio politico.
Perchè “Vergine Giurata” è un film fortemente politico per il modo in cui mostra la coincidenza tra desiderio e negazione come spazio “eccentrico” e ambivalente dove può formarsi la soggettività, quel territorio di necessità, fantasmi e solitudine di cui parla Teresa De Lauretis per descrivere le ragioni del discorso politico, ovvero le donne come “soggetti concreti”.
Il punto di vista scelto sembra simile a quello del cinema di Cristian Mungiu (ma per non tirare in ballo i soliti Dardenne, al netto della cudeltà, ci sono venuti in mente il Dumont migliore meno simbolico e più fisiologico, la Nina Menkes meno visionaria e più frontale, quella di “Magdalena Viraga” non importa se consapevolmente o inconsapevolmente) nel lavoro sulla necessità rituale dell’immagine, legata ad un continuo processo di adattamento dove il corpo, come si diceva, occupa una posizione centrale attraverso la dimensione aptica del gesto; il fasciarsi e lo scoprirsi, l’esplosione di una necessità sessuale che non viene caricata di nessun significato morale e psicologico, l’osservazione di un mondo di corpi diversamente disciplinati come quelli del nuoto sincronizzato.
Il luogo della piscina, tra l’altro, torna per la seconda volta nella breve filmografia della Bispuri, dopo l’esperimento in 3D per il corto “Salve regina“, con intenzioni similmente tattili; in quel caso si trattava di sperimentare la dimensione acquatica come esperienza immersiva e contemplativa allo stesso tempo, mentre in “Vergine Giurata” è il brodo primordiale che ospita una successione di corpi tatuati, liberi, fuori forma, infantili, estatici che si aprono sulla visione di quel limen che consente la possibile formazione di una o più soggettività.
Laura Bispuri, che fa semplicemente cinema (una cosa rara in Italia) ci mostra un processo identitario reversibile, interstiziale e in transito, nel suo farsi, disfarsi e ridefinirsi senza addensare le immagini con stratificazioni concettuali che si sostituiscano alla loro chiarezza, Judith Butler parlerebbe di “significante libero”, a noi piace pensare, sfruttando in modo indebito le riflessioni della filosofa americana, che i gesti, le azioni, i movimenti, l’abbigliamento e il corpo di Alba Rohrwacher lavorino performativamente attraverso gli interstizi del potere, mentre guardiamo, anche per questo il film di Laura Bispuri ci piace molto.