Sulle congetture di simulazione che secondo alcune propaggini della fisica, potrebbero determinare l’esistenza del nostro stesso universo, Stéphane Lafleur ha costruito una commedia lucidissima che parte dai principi di problem solving replicati in laboratorio, per applicarli ad una piccola comunità di cinque candidati, il cui compito è rimettere in scena ai margini di un deserto, le problematiche tecniche, psicologiche e relazionali legate ai profili equipollenti di un gruppo di astronauti spediti in missione su Marte.
Come nelle pitture iperreali di Scott Listfield, lo scenario, gli oggetti quotidiani e quelli vicini all’esperienza interstellare, trovano convergenza in quel punto di vista alieno che ne sovverte le funzioni, svuotando e derealizzando apparenze e gesti, destinati a creare un mondo interstiziale.
Marte esiste solo nel sogno desiderante di David, uno dei cinque selezionati, mentre la terra diventa un’eccedenza da superare e dissolvere con una simulazione autoallucinatoria.
Per determinare lo spazio e i tempi della commedia, in tutto il Cinema di Lafleur rintracciabili nello scarto tra coscienza e volontà, due polarità che possono invertire le conseguenze dell’azione e quelle della paralisi emotiva, il regista canadese immerge l’esperienza dei cinque simulatori in un ambiente proto-fantascientifico, dominato in parte dalla meccanica, dall’ingegneria idraulica e da dispositivi che hanno maggiori legami con le telescriventi degli anni settanta, che con il supporto delle intelligenze artificiali.
Una dimensione straniante che diventa irriconoscibile, nella misura in cui la familiarità di leve, fermagli e interruttori abita funzioni mai viste e crea quel cortocircuito tra confidenza dei segni e sabotaggio del senso.
Questo gli serve per resuscitare il dominio di un principio di realtà, in un mondo dominato da quello di simulazione. Un’inversione che procede controcorrente anche rispetto ai desideri simulacrali di narrazioni diffuse, protese verso la contrazione ologrammatica.
L’addestramento disciplinare che i cinque astronauti sulla terra devono seguire, assume le caratteristiche di una prassi attoriale, dove ciascuno interpreta la controparte su Marte in base ad un principio di similarità emotiva e attitudinale, che supera la necessità di far combaciare appartenenze di genere ed età anagrafica.
Nel passaggio da un’identità all’altra Lafleur sovrappone l’innesco situazionale capace di strappare una risata, mentre la ricaccia in gola grazie a quel senso di alienazione che accompagna il disorientamento generato dall’incapacità di relazionarsi con il mondo, qualsiasi forma questo abbia assunto.
Se ad Ágnes Kocsis in Eden, la costruzione di un ecosistema privato e secluso, serviva per rimappare il lessico di una sensorialità perduta entro una realtà compromessa dall’inquinamento, ciò che rimane fuori nel mondo teatralizzato di Viking è la possibilità che ogni gradazione dei sensi, lasci il posto all’efficienza e alla sutura di tutte le emozioni in gioco.
Lafleur sembra rifarsi alle tecniche di simulazione aziendale, utilizzate per il contenimento delle situazioni di rischio e per la gestione di capacità proattive. Irride ferocemente quel mondo, come lo scientismo turbocapitalista, ma lo fa restituendo allo spazio della scienza un orizzonte visionario, legato al disinnesco stesso dell’artificio e alla possibilità di sabotare le similarità semantiche delle intelligenze artificiali.
Stare completamente lontano da quel mondo in termini mimetici, riproducendone solo le caratteristiche ideologiche e cognitive in una realtà che sembra ancora quella industriale, incorporata in una wasteland a perdita d’occhio, è la forza di Viking, così distante dalla realtà scientifica coeva eppure drammaticamente vicino a quell’isolazionismo forzato in cui può confinarci.
Allora, nel calcolo delle probabilità che alimenta i principi concentrazionari della ricerca, non c’è spazio per l’anomalia, la sofferenza, la malattia, per la morte e per le origini della vita, quasi sempre inventate, rimesse in scena oppure avvenute altrove, fuori dallo spazio conosciuto.
Né i sentimenti possono esser definiti come materia capitalizzabile, in una realtà regolata da meccanismi di sopravvivenza, quelli che per due volte vengono indirizzati al mondo brutalmente evoluzionistico preconizzato da Ronald Reagan.
Oltre quella cornice, il fuori campo è una foresta, e si può incontrare un’immagine falsificata di noi stessi, ma anche scegliere se utilizzare una zolletta di zucchero per il caffè, oppure sprecarne un paio per il gusto di farlo.
Viking di Stéphane Lafleur (Canada 2022, 104 min)
Interpreti: Steve Laplante, Larissa Corriveau, Fabiola N. Aladin, Hamza Haq
Sceneggiatura: Stéphane Lafleur, Éric K. Boulianne
Fotografia: Sara Mishara
Montaggio: Sophie Leblond