Se vero è che la Nouvelle Vague di padri ne ha più d’uno, può a buon diritto vedere negli occhi di Agnès Varda (Cleo dalle 5 alle 7, 1962) uno sguardo materno; la regista, fotografa e sceneggiatrice, oggi quasi novantenne dall’inestinguibile flamme da ragazzina ad alimentare miliari convinzioni teoriche, incontra JR. Lui classe 1983, celebre artista itinerante, affigge gigantografie di volti sulle più varie superfici rurali e suburbane, disegnando scatto dopo scatto la mappatura della Francia più autentica.
Poco importa che siano due o tre le generazioni tra loro, la comunione del punto di vista li ha portati a seguire un percorso nella stessa misura fisico e intellettuale, indiscutibilmente univoco pur procedendo per illuminazioni, che intrapreso a partire dal 2015 li ha condotti insieme a Cannes prima, agli Oscar poi. Nel mezzo il traguardo che vale più d’ogni altro: la forza catartica dell’arte visiva tra le gente, luce discreta o faro prepotente, a seconda dei casi, ad illuminare storie di ordinaria bellezza, nascosta poesia non senza storture lungo il cammino, sempre superate o aggirate, grazie all’arma vincente di una sottile ironia.
Visages, Villages è allora il film sul film, documentario della propria stessa realizzazione, soggetto e oggetto della rappresentazione, sublime metacinema dalla fruibilità immediata, flusso incandescente di due coscienze che sommate danno vita a questo ibrido, originalissimo frutto nuovo.
“Li stupirebbe molto sapere/ che già da parecchio tempo/ il caso giocava con loro”, come nei versi di Wislawa Szymborska. Per strada, dal panettiere, Varda e JR si sono incrociati senza riconoscersi specchiati l’uno nell’altra; una costellazione di segnali indecifrabili, fattisi indicatori cristallini di un destino comune nel momento del primo vero incontro nell’informalità di una cucina, un gatto totemico a vegliare sulla loro creatività.
Pellicola e “fotograffito” si fanno mezzo e supporto di un progetto ampio e dalle possibilità plurime: incontrare persone per trovare le idee, facce nuove da immortalare perché non vadano a finire nei buchi della memoria. Migliore assistente: il caso, secondo un modus operandi che ha tutto della Nouvelle Vague. Con quel cinema Varda instaura un corpo a corpo nostalgico, a volte straziante. Ne conserva prassi e strutture, ne celebra il ricordo e la persona di Godard, un tempo collega e amico ora tangibile assenza, superandolo quindi in definitiva verso orizzonti inediti.
“Sono sempre pronta a partire se si va verso villaggi, paesaggi semplici, visi”. Viene dunque da sé il viaggio sentimentale a bordo dell’obiettivo errante di JR, laboratorio in fieri che li traghetta da una sponda all’altra del paese, Provenza e Normandia estreme coordinate.
Episodicamente, per ellissi, si susseguono gli occhi che ridono, la commozione degli sguardi, le rughe che raccontano storie; l’immaginazione degli artisti colonizza territori quotidiani rivestendone le pareti di una dignità sottaciuta o negata. A fare da fil rouge sono i passi e le parole dei due improbabili viandanti, i loro bozzetti impressionistici sull’appena visto e vissuto, le riflessioni sul farsi stesso dell’opera e a un livello superiore, sul senso del tempo e dell’effimero, con la leggerezza che è propria solo di chi sa di averne battute di strade.
Una genuina spontaneità creatrice, supportata dall’esperienza, dà vita a un film che contiene in sé nella lucida mise en abyme del particolare, le plurali storie dell’uomo e del cinema. Il sapore è, solo in parte quello dolceamaro che provoca il ricordo di una stagione vitalissima, non reduplicabile identica a se stessa; prevale a ben vedere la freschezza dell’essere, uomo e cinema aperti al divenire, sospinti e risospinti verso attuabilità nuove.
“Il mare ha sempre ragione e il vento e la sabbia”, ma il modo di reinventare una corsa al Louvre si trova.