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Vivants di Alix Delaporte: recensione – Venezia 80

Alix Delaporte innesta il suo sguardo e quello di un'incantata Alice Isaaz sull'accelerazione dell'immagine reportistica. Riassumere la capacità di osservazione, contro la reificazione della catastrofe. Visto fuori concorso a Venezia 80, la recensione di Vivants.

A dieci anni di distanza da Le Dernier Coup De Marteau, Alix Delaporte, habituée del festival sin dai tempi di Angèle e Tony, torna in laguna fuori concorso con un film altrettanto conciso e dall’anima intimamente musicale, dove l’attenzione ai segni di un linguaggio disancorato dalla supremazia della parola, viene calata nel clima concitato e in costante movimento del giornalismo televisivo d’inchiesta. La forza del gesto capace di tendere un ponte tra i vuoti dell’esistenza che nel film precedente descriveva lo scarto tra l’esterno e l’interno di una malattia, in Vivants emerge come interstizio possibile dalla saturazione delle immagini e la velocità ipertrofica con cui vengono prodotte.

Nell’allestimento di un servizio dietro l’altro, non c’è mai tempo per acuire la visione oltre la spinta adrenalinica generata dalle committenze. Lo studio modulare e trasparente entro il quale si muove l’appassionata equipe produttiva, è concepito affinché tutto sia a portata d’occhio e non sfugga alcun dettaglio negli incastri possibili tra racconto televisivo e la sua creazione tecnica.
Gabrielle, stagista che si inserisce per far pratica come tuttofare, ricombina insieme a noi i fili della macchina produttiva, assumendo un punto d’osservazione interno che investe di senso gli elementi costituitivi.

Cattura con avidità ogni mossa, si infila dietro gli operatori per applicare una batteria, corre a perdifiato per consegnare un microfono dimenticato, sguscia in sala di montaggio nei rarissimi tempi morti del flusso di lavoro. Il sistema della produzione reportistica è fatto quindi di scarti, improvvisi riassestamenti, contrattazioni sul bordo, imprevisti grotteschi e profondamente tragici che rimettono in discussione l’ordito di partenza.

Alix Delaporte innesta il suo sguardo su questa perenne instabilità senza mai contestualizzare fino in fondo i servizi e gli obiettivi della troupe, ma cogliendo improvvisamente l’occhio del ciclone e la ricerca di una flagranza esplosiva anche in fase di editing. Al centro degli eventi, operatori e giornalisti percorrono il crinale tra trionfo e sconfitta, pagando di persona con la messa in scena del proprio corpo e della propria presenza.

Ciò che non si può dire né vedere, come accade spesso nel cinema ellittico della regista francese, viene assorbito dalla volontà di Gabrielle di chiudere gli occhi sul girato di un massacro e più in generale sulla sua collocazione testimoniale, quindi critica, rispetto alle prassi intrecciate di tutte le maestranze.

Ma è soprattutto lo scambio tra il suo sguardo e quello del personaggio interpretato da Roschdy Zem, ad attivare una storia di sentimenti collocata a margine dei numerosi racconti che cominciano, si inceppano e non finiscono. Una dimensione amorosa che occupa la periferia dell’occhio e che si innesca nello scambio a distanza tra tenerezza e stupore, apprendimento sul campo e quella capacità di improvvisare la prosecuzione della vita, anche di fronte al dolore. Si inquadrano a vicenda sin dall’inizio, attraverso una serie di gesti che preconizzano cura e attenzione reciproca, ma entro le distanze e le simmetrie orchestrali che il balletto dei ruoli impone.

Quando Roschdy Zem, che interpreta il produttore dell’intera equipe, dialoga con la geometria di alcuni gesti insieme a Jean-Charles Clichet, sulle note del Bolero di Ravel, ci viene suggerito che l’orchestrazione è più pregnante dello sviluppo.

Ma se non esiste tecnologia senza la possibilità stessa del fallimento, sembra dirci Delaporte, l’unica possibilità di sfuggire alla reificazione della catastrofe che ci intrappola all’interno dell’accelerazione in una successione fenomenica, è riacquisire le capacità di osservazione, come disorientamento percettivo che possa improvvisamente sorprenderci.

Quando tutto sembra perduto e lo studio sta per chiudere i battenti, una giraffa viene liberata per le strade della città. Delaporte mette insieme fantasia e desiderio, politica e rilettura Storica.

Libero dalla narrazione coloniale per come l’ha dipinta Nicolas Huet il Giovane, l’animale erompe nella realtà quotidiana organizzata dai media e costringe alla contemplazione e alla scelta di un punto di vista inedito.

Esserci diventa più importante del settaggio di una videocamera, degli smartphone puntati all’unisono come armi da fuoco, del dispositivo che sostituisce l’irripetibilità dell’evento.

Quando Gabrielle viene inquadrata da Roschdy Zem per proseguire una danza giocosa di sguardi e movimenti, questo potrebbe innescare un incontro effettivo tra i due, ma la sua forza, rispetto alla centralità ossessiva dell’occhio televisivo, Delaporte la spinge dolcemente fuori campo.

Vivants di Alix Delaporte (Francia, Belgio – 2023 – 86 min)
interpreti: Alice Isaaz, Roschdy Zem, Vincent Elbaz, Pascale Arbillot, Pierre Lottin, Jean-Charles Clichet
Sceneggiatura: Alix Delaporte, Alain Le Henry in collaborazione con Olivier Demangel, Jeanne Herry
Fotografia: Inès Tabarin
Montaggio: Virginie Bruant

RASSEGNA PANORAMICA
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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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