“I Fatti non son che i balocchi dell’Azzeccagarbugli… Trottole e Cerchi, sempre in rotazione… Ahimè, lo Storico non può indulgere in tali oziosi Giri. La Storia non è Cronologia, ché quella si lascia agli Avvocati… né Rimembranza, ché la Rimembranza appartiene al Popolo. La Storia può così picciolamente aspirare alla Veracità dell’una, come ambire al Potere dell’altra… i Praticanti d’essa, per sopravvivere, debbono apprender tosto le arti della ciarla, dello spionaggio e della Furberia da Mescita… così d’addentrarsi a ritroso per più d’un Corso di Vita in un Passato nel quale rischiamo, ogni giorno, di smarrir per sempre i nostri avi – non una Catena di singoli Anelli, poiché un solo Anello spezzato ci può perdere Tutti – piuttosto, un assai disordinato Garbuglio di Linee, lunghe e brevi, deboli e salde, che vaniscono nella Profondità Mnemonica, avendo in comune solo la Destinazione.” (Thomas Pynchon – Mason & Dixon, 2009 – Bur)
“[…] forse lui avrebbe solo dovuto continuare a guidare oltre Long Beach e poi giù, attraverso la Orange County e San Diego e oltre un confine dove nessuno, nella nebbia, avrebbe più distinto chi era messicano, chi anglosassone, chi era chicchessia. E in ogni caso, forse avrebbe comunque finito la benzina e si sarebbe dovuto staccare della carovana, e fermare sul ciglio della strada e aspettare.” (Thomas Pynchon – Vizio di Forma, 2011, Einaudi)
“Just us. Together. Almost like being underwater. The world, everything gone someplace else.” (Paul Thomas Anderson, Inherent Vice, 2014)
Nel film di Paul T. Anderson, quando Doc guida nella notte, la nebbia si vede dall’abitacolo della macchina come se fosse uno schermo opaco impenetrabile; diversamente dal romanzo di Thomas Pynchon Sportello non è solo, sul sedile del passeggero c’è l’ex fidanzata Shasta. Con la testa appoggiata sulla sua spalla la ragazza gli ricorda quando si erano trovati in mezzo ad una grande tempesta dopo aver consultato la tavola Ouija. Da soli, come in un paesaggio sottomarino che ha preso il posto del mondo conosciuto, improvvisamente scomparso.
Nella geografia Pynchoniana a un certo punto, la distinzione tra territoriale e mentale diventa impossibile e i personaggi dei suoi romanzi vengono coinvolti in un processo che di volta in volta assume le caratteristiche della quest o della detection, una ricerca che nega il suo stesso statuto attraverso un movimento incessantemente nomadico, il cui risultato conduce ad una smaterializzazione di tutti i confini conosciuti, non solo quelli legati alla definizione del paesaggio, ma anche alla coerenza ontologica dello spazio narrativo. L’autore si ritrae rispetto alla proliferazione di informazioni, fatti, eventi storici, luoghi geografici ed espansioni della mente e non impone un’organizzazione del materiale, perdendo le coordinate insieme ai suoi personaggi e alla voce narrante; questa, contaminata dalla stessa instabilità, fa i conti con tutti gli elementi del testo organizzandoli solo momentaneamente e assumendo forme e registri diversi in base al contesto e ai personaggi che si trovano in prossimità.
L’attesa di Doc sul ciglio della strada ad aspettare che la nebbia si dissolva, descritta dalla voce narrante in “Vizio di Forma” è un luogo liminale come la “Zona” de “L’arcobaleno della Gravità“; il “romance” di Hawthorne, Melville, Poe che Brian Mchale definisce come “border fiction” nel suo fondamentale “Postmodernist Fiction”, ovvero come trasposizione del racconto di frontiera tra “wilderness” e civilizzazione, dall’ambito geografico ad una zona neutrale e simbolica, nei romanzi di Pynchon occupa lo spazio di una dimensione psichica.
In “Vizio di Forma” la voce narrante ha le stesse caratteristiche proteiformi, ma rispetto a “L’arcobaleno della gravità” si confonde con un materiale più organico, che Pynchon sembra circoscrivere per la prima volta ad un genere, agglutinando tutte le variabili possibili a partire dall’hard boiled classico, passando per le riletture cinematografiche, parodiche, fumettistiche dello stesso alle quali sovrappone ambienti, riferimenti e contesto che si riferiscono alla controcultura della metà degli anni ’60 e alla sua fase entropica post Altamont.
La “psychogéographie” californiana che Pynchon imbastisce non rileva una dimensione nostalgica, ma la sopravvivenza di un impulso dionisiaco nell’ipertrofia dell’immaginario mediale tra rock, cinema, televisione, droghe come segni in via di assimilazione; già Brock Vond, l’agente federale nixoniano di “Vineland” comprende di poter sfruttare a suo vantaggio quello stesso fermento rivoluzionario come parte del sistema: “Il genio di Brock Vond consisteva nell’avere scorto, nelle attività della sinistra degli anni Sessanta, non una minaccia per l’Ordine bensì il desiderio di esso. Laddove la Tivù parlava di giovani in rivolta contro genitori di ogni tipo, e la maggior parte degli osservatori accettava questa tesi, Brock Vond vide il profondo – addirittura commovente – loro bisogno di restare figli per sempre, al sicuro in seno ad una vasta Famiglia nazionale” (Thomas Pynchon, Vineland, Bur – 1991).
Mentre Shasta, nel film di Paul T. Anderson, condivide o forse materializza il desiderio di Sportello per una zona liminale che spazzi via la California e la sostituisca con qualcos’altro, una luce intermittente gli illumina l’occhio; come si diceva la voce narrante, che Anderson desume in modo fedele dal romanzo di Pynchon, ma che utilizza in forma del tutto combinatoria e originale, in questo caso viene sostituita dalla rêverie della ragazza e da quel bagliore, una luce che distrae Doc solo per un attimo senza distoglierlo dalla guida.
Anderson sembra aver assimilato tutti i processi intertestuali, metatestuali e transtestuali che Pynchon ha costruito sia in forma prolettica che analettica, attraverso l’allusione e i riferimenti a generi letterari, cultura pulp, cultura scientifica, musica rock, filosofia, storia politica, cinefilia e al suo stesso multiverso narrativo.
Quella del cineasta americano è una profonda penetrazione del testo Pynchoniano, riallocato alla luce del suo cinema, una commistione che miracolosamente occupa quella “Zona” di cui parlavamo, un luogo di appartenenza e di spossessamento che è di Anderson e di Pynchon allo stesso tempo, ma che come il “Whileway” di Joanna Russ (The Female Man è un esperimento se si vuole Pynchoniano) è un limen separato dall’autorità del testo, tanto che ci si potrebbe avvicinare al film senza aver per forza letto i romanzi di Pynchon.
Quel bagliore, dicevamo, e quel “Just us” nel film di Anderson, richiamano in qualche modo “La cresta dell’onda“, l’ultimo romanzo del grande scrittore americano pubblicato nel 2013, strettamente collegato a “Vizio di Forma” da moltissime analogie, anche strutturali, e ambientato in quel continuum tra mondo reale e intelligenze connettive tre anni prima dell’avvento di facebook. Maxine Tarnow, una private eye esperta in frodi fiscali, alla fine del romanzo dopo essersi ricongiunta con il nucleo famigliare, scorge un bagliore dai palazzi antistanti e dopo un attimo di esitazione, se lo lascia alle spalle.
L’esistenza di Maxine come quella di Doc, è stata garantita fino a quel momento da una rete criptata di significati nascosti all’interno di una realtà nel pieno della sua fase entropica che Pynchon osserva proprio come gli anni ’70 di “Vizio di forma“, ovvero con i relitti di una tecnologia obsoleta, incorporati nelle stratificazioni successive, mentre la controcultura cyber (hacker, spammer) è a un passo dal cortocircuito con il sistema dell’informazione globale; quando le indagini saranno concluse, perché come in tutte le quest Pynchoniane procedono verso il nulla, Maxine negherà la cospirazione lasciandosela alle spalle come un bagliore lontano, scegliendo uno spazio liminale e privato.
Anderson rielabora quindi la descrizione conclusiva della voce narrante, la attribuisce a Shasta e ricontestualizza l’immagine apocalittica de “La cresta dell’onda” nel viaggio verso il nulla di Doc, dove l’unica certezza è quel: “Just us. Together. Almost like being underwater. The world, everything gone someplace else“.
Sempre da “La cresta dell’onda“, Anderson ricolloca il footjob indolente di Maxine a favore di un hacker, in una sequenza tra Shasta e Doc girata con un lungo e fisso piano sequenza, segno di un lavoro sullo spazio/tempo che attraversa tutta la sua versione di “Vizio di forma“.
Non esiste più quella geometria “planimetrica” (è un termine che prendo in prestito da David Bordwell) e astratta di “Punch Drunk Love“, coreografata sul cinema del passato (la musica cromatica di Ginna e Corra, quella visuale di Oskar Fischinger, il cinema ottico di Busby Berkeley, la screwball comedy, Douglas Sirk, la pop art….) con un estetismo che si è andato riducendo per poi schematizzarsi nuovamente in “The Master“, la cui forza residuale rimaneva, dentro l’involucro binario del film, nella furia performativa degli attori imprigionati entro spazi sin troppo iperrealisti e simbolici.
L’ipertrofia, in “Vizio di Forma“, è quella dei personaggi Pynchoniani, materia polisemica che riconfigura il mash up “popular” di “Magnolia” (canzone, videoclip, musical) in un continuum transmediale definendo il tempo come “lo spazio che non può essere visto” (Mason & Dixon).
Anderson spazza via tutti i barocchismi, i movimenti complessi, le visioni aeree e quelle lanciatissime lavorando sulla persistenza dell’immagine per definire uno spazio mentale senza distorcerlo; anche in questo caso popola il film di figure tra la vita e la morte, come le mappe impossibili de “La cresta dell’onda“, infestate da siti cancellati, dati obsoleti, avatar già morti.
L’esempio più forte, ancora una volta, è il lavoro di rielaborazione che compie sulla voce narrante del romanzo di Pynchon; pur rispettandone alla lettera il testo, in modo del tutto nomadico e Pynchoniano, come se fosse l’ibridazione sperimentata ne “L’arcobaleno della gravità“, attribuisce la voice over al personaggio di Sortilège (Joanna Newsom), che nel romanzo aveva un ruolo più ridotto, attribuendogli così una funzione fantasmatica, a metà tra realtà e immaginazione, sospesa in una dimensione che di volta in volta condivide la coscienza allucinatoria di Doc, quella del racconto, quella di Anderson o più semplicemente quello spazio irreale, sul ciglio della strada, che ci consente di essere senza alcun riferimento letterario, “someplace else“.
Anderson non lo inventa del tutto il personaggio di Sortilège, ma compie una prodigiosa operazione combinatoria, interpretando la descrizione che ne fa Pynchon, come colei che riusciva a rimanere in contatto con forze invisibili per risolvere problemi concreti ed emozionali, oppure che aveva la capacità esoterica di leggere il tempo da un orologio rotto.
Nel “Bad timing” di Anderson il mondo di Pynchon non entra come un catalogo di citazioni, ma attraverso una potente immagine dell’ambiguità, che in un unico spazio trattiene il visibile e l’abisso.