domenica, Dicembre 22, 2024

Waste Land di Pieter Van Hees: la recensione

Waste Land, l’ultimo film del belga Pieter Van Hees, condivide con l’omonimo poema di T. S. Eliot una visione disperata sulla decadenza dell’occidente, scavando proprio nella parte più oscura di quelle suggestioni rituali che erano una delle fonti di ispirazione del poeta americano, desunte attraverso il filtro dell’opera antropologica di Jessie Weston. I riferimenti sono del tutto allusivi perchè lo scenario è quello della Bruxelles contemporanea, quasi interamente filmata di notte e inquadrata sin dai titoli di testa attraverso alcuni frammenti di vita urbana che ne rilevano la qualità sonnambula. È un percorso soggettivo attraverso il punto di vista di Leo Woeste (Jérémie Renier), detective della omicidi costantemente a contatto con il cuore nero della città; una delle prime sequenze del film di Van Hees ce lo mostra durante la ricostruzione di un omicidio interpretata dallo stesso assassino sulla scena del crimine; Leo si sostituisce alla vittima in un momento di terribile iperrealtà; disteso a fianco di una pozza di sangue rappreso, vomito e viscere viene cavalcato dall’assassino che ripete la simulazione di uno sventramento, un malessere febbrile e distruttivo che accompagnerà la sua imminente discesa verso gli inferi.

È un disfacimento progressivo, quello della psiche di Leo, non così distante in fondo da quella compenetrazione di forze opposte che attraversa tutta la storia, anche eretica, del cinema noir, da “So Dark the night” di Joseph H. Lewis fino ad esempi più recenti, passando per “Cruising” di William Friedkin da cui Van Hees sembra farsi ispirare nella descrizione, anche cromatica, di un mondo sotterraneo e pulsionale.
Mentre Leo si avvicina sempre di più allo strato marcio della società in cui vive, i rapporti famigliari ne rimangono irrimediabilmente invischiati; la moglie Katrien (Natali Broods) è incinta del secondo figlio ed è quasi decisa ad interrompere la gravidanza, proprio per quella zona d’ombra che sembra impadronirsi sempre di più del marito.
E proprio durante la gravidanza Leo entrerà in contatto con la comunità Congolese della città, per seguire le indagini sulla morte di un immigrato ripescato dalle acque di un fiume, entrando così in contatto con Aysha, la sorella della vittima interpretata da una splendida Babetida Sadjo e con l’attività clandestina legata al traffico di oggetti e piccoli artefatti rituali.

Van Hees traspone in un territorio astratto e psichico il percorso di una detection che gira irrimediabilmente a vuoto, inoculando quelle stesse suggestioni animistiche che attraversavano “Fallen Angel” il romanzo di William Hjortsberg adattato per lo schermo da Alan Parker alla fine degli anni ottanta, per applicarle alla coscienza sommersa dell’impero coloniale belga; Leo in qualche modo è il punto di contatto tra la sicurezza del mondo occidentale e un inferno inconoscibile che si nasconde tra le fondamenta della città di asfalto e metallo, e sulla sua perdita di controllo Pieter Van Hees conduce una ricognizione sui contenuti rimossi della coscienza, identificando nell’impossibile relazione con Aysha una radice inconsciamente razzista, sbilanciata tra ossessione erotica e attrazione incontrollata per gli aspetti cultuali della micro società congolese.

Tutto ambientato all’interno di spazi chiusi, scorci inediti e infernali di Bruxelles dove emerge il brulicare di un’attività ritualistica invisibile, “Waste land” è il terzo capitolo di una trilogia inaugurata nel 2008 con “Linkerover” e il più politico del lotto, almeno nel tentativo di deviare l’allure neo-noir in uno spazio dove l’origine del processo di disintegrazione dell’anima nasce da una complessa relazione tra culture. Nel descrivere i tratti di una società corrotta, sopratutto attraverso il rapporto tra il misterioso uomo d’affari e la parte più inquietante della magia nera congolese, Van Hees sovrappone l’esplosione di un mondo psichico irregimentabile con la percezione di un pregiudizio, mescolando spesso le carte e puntando alla disanima della stessa coscienza di Leo, intrappolato in quella melma sedimentata attraverso secoli di supremazia occidentale.

Waste Land si muove in questo territorio scivolosissimo, e pur rischiando di passare dalla parte di un simbolismo arbitrario riesce a mantenere una tensione disturbante che non punta quasi mai ad una risoluzione, per un allineamento del ritmo generale alla scansione temporale, e quindi anche rituale, del percorso di gravidanza di Katrien; mentre questa è in pieno travaglio, Leo compie un viaggio verso il nucleo più controverso e oscuro della sua formazione culturale, un’agnizione che lo separa dal suo contesto, ovvero quello della paternità, per avvicinarsi pericolosamente alle radici del male, inteso come desiderio di dominio su una cultura “aliena”.

Grazie anche all’ottima fotografia di Menno Mans, Waste Land è un incubo affascinante, immersivo e costantemente “fuori fuoco” rispetto all’oggetto dell’indagine; avviluppato su se stesso ci sorprende infine al centro di una terra desolata.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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