Ci sono circa 280 cani che si ribellano nell’ultimo film – premiato a Cannes (Un Certain Regard) – di Kornel Mundruczo, regista ungherese noto soprattutto per il controverso Tender Son: The Frankenstein Project, molto libera rivisitazione del capolavoro di Mary Shelley. Per entrare nello spirito di White God – una sinfonia per Hagen si dovrebbe forse cominciare dal titolo. Per gli uomini bianchi, Dio è sempre stato bianco o, piuttosto, i bianchi hanno creato un Dio a propria immagine e somiglianza. Poi, nel corso della storia, l’uomo bianco si è spesso comportato come un Dio agli occhi di svariate categorie di subalterni. Mundruczo parte da qui per costruire un film dall’impianto simbolico potente e dalla tensione dichiaratamente morale. Un figlio lontano dell’horror a sfondo socio-politico alla Romero, per nulla consolatorio o conciliante, che sfocia in una critica della società occidentale nel suo complesso attraverso lo specchio dell’Ungheria contemporanea.
Quando un’ordinanza del governo impone una tassa sul possesso di cani meticci, il padre di Lili (l’adolescente Zsófia Psotta) – musicista tredicenne di Budapest che vivrà con lui per tre mesi – decide di abbandonare Hagen sul ciglio dell’autostrada. Mentre Lili non smetterà di cercarlo, Hagen percorrerà tutti i gironi infernali della perversione umana – combattimenti fra cani, accalappiacani, canili lager. Quando gli si presenterà l’occasione, Hagen si metterà a capo di una rivoluzione che coinvolgerà centinaia di cani provenienti dal canile più grande di Budapest, mettendo a ferro e fuoco la città e vendicandosi, a uno a uno, dei malfattori.
Negli ultimi anni, in svariati paesi europei, sono stati presi provvedimenti, spesso spietati, contro il randagismo. L’episodio recente che ha forse più scosso l’opinione pubblica risale al tempo immediatamente precedente gli Europei di calcio del 2012, quando in Ucraina si è consumata una strage di cani e gatti randagi. L’Ungheria fa invece parte di quei paesi dell’Est Europa da cui vengono importati “animali da compagnia” in modo illecito.
L’idea alla base del film è che sia la società a trasformare i cani, al tempo stesso, in pericolosi mostri e negli unici, giusti, custodi dell’universo morale. Il germe della storia – che sviluppa il tema arcinoto dell’amicizia fra animali e adolescenti problematici – si è sviluppato attraverso il lavoro di Mundruczo con le co-sceneggiatrici Kata Weber e Viktória Petrány. Il substrato culturale è offerto invece dai romanzi animalisti del premio nobel sudafricano J. M. Coetzee (come il protagonista del romanzo Disgrace, il padre di Lili è un ex professore che ha perso il lavoro e si trova a fare i conti con cambiamenti improvvisi). L’innesto di temi animalisti è evidente fin dalle prime inquadrature – con le mucche che camminano sull’asfalto e sono scortate al macello dove lavora il padre di Lili – e negli insistiti primi piani di brandelli di carne e cadaveri animali squarciati.
Mundruczo sceglie gli animali come rappresentanti dei sopraffatti e degli esclusi, offrendo loro un’occasione di riscatto che ha il sapore della rivolta spartachista. L’elemento più interessante del film sta nella coniugazione – non sempre riuscita – di stilemi provenienti da generi diversi, che vanno dal documentario a sfondo sociale al racconto di iniziazione, passando per la fiaba a tinte horror. L’elemento allegorico, con tocchi di sadismo e punte splatter, si innesta progressivamente sullo sfondo realista della prima parte, che disegna il rapporto conflittuale fra Lili, il padre e Hagen. Quando le strade di Lili e di Hagen si separano, per volontà del padre di lei, il copione segue la progressione delle loro rispettive vite, mettendo inevitabilmente a confronto l’accidentato percorso verso la maturità di Lili – che culmina in una sorta di riconciliazione con la figura paterna – con la fuga senza fine di Hagen, che si trasformerà invece nel capo della rivolta canina.
Girato per le strade di Budapest, con inquadrature dall’alto delle geometrie urbane e dei ponti che collegano i borghi di Buda e Pest, e sequenze nei vicoli e nei sobborghi a documentare le peripezie di Hagen, il film restituisce l’immagine di una capitale fredda e impassibile, ben diversa dall’immagine di città chiassosa e irriverente che accoglie i turisti dopo il crollo dell’impero sovietico. Nella scena, premonitrice, che precede i titoli di testa, in un’atmosfera solenne enfatizzata da un leggero rallenty, Lili è inseguita da una mandria di cani per le strade di una città deserta e immobile in cui il tempo sembra sospeso. La rivolta dei cani meticci di Budapest, simbolo dell’opposizione delle masse all’élite dominante, rompe la continuità spazio-temporale, dando il via a una lunga notte in cui uomini e animali diventeranno nemici. E’ nella seconda parte che il passaggio dal reale al simbolico si fa tangibile nello schema con cui i cani attuano la propria vendetta, secondo un meccanismo umano, troppo umano, che prevede l’uccisione in sequenza dei vecchi torturatori. Nella parte finale – con Lili-pifferaio magico che suona il passo più noto delle Rapsodie Ungheresi di Liszt, opera ispirata alla rivoluzione ungherese del 1948 –, che riporta tutti, simbolicamente, al mattatoio, l’horror venato di sangue cede definitivamente il posto alla fiaba ammonitrice.