Dopo la tragica morte di sua madre in un incidente d’auto, Ida, giovane ragazza di diciassette anni deve affidarsi alle cure della zia Bodil, per lei perfetta sconosciuta. L’ambiente che trova, con la zia che vive a fianco dei suoi tre figli, si rivela accogliente e protettivo. Lentamente emergono dinamiche tossiche più complesse, fino a quando Ida non si troverà in mezzo ad uno scenario di violenza, di dipendenza e di intimidazione mafiosa. I tre cugini, dediti allo strozzinaggio e parte del tessuto criminale danese, respingono e attraggono la ragazza nel momento più delicato della sua formazione. Ciascun elemento della famiglia sembra avere un ruolo preciso: Jonas, quello del “padre” che con autorità e carisma indica la via da seguire. Il fratello minore David, in lotta con la dipendenza da droga, Mads il più infantile di tutti, sessualmente e affettivamente, sbilanciato tra i videogiochi, la palestra e un rapporto morboso con la madre. Entro un clima sottile di perversione, Ida viene lentamente coinvolta in una complessa rete di sentimenti che sollecita il senso di appartenenza e il rifiuto, quello di fratellanza e la linea di un matriarcato rovesciato, la propria identità o la sopravvivenza del nucleo
Nella tradizione del cinema “criminale” danese, fino alle produzioni più recenti sospese tra iperrealismo e la geografia sociale di un paese attraversato da una vera e propria guerra tra gang, Jeanette Nordahl sceglie una via laterale. Oltre alla sovrapposizione tra economia famigliare e codice mafioso nella sua declinazione più intima e quotidiana, sono gli effetti di un matriarcato rovesciato a generare la drammaturgia di Wildland.
Dalla Bloody Mama di Corman, fino alla Janine “Smurf” di David Michôd, il “clan” descritto dalla sceneggiatrice Ingeborg Topsøe desume molte delle dinamiche affettive che legano madre e figli, accentuando la condivisione perversa di affetto e violenza, ma anche quel desiderio ferino di preservare la linea maschile dell’accesso pragmatico e privilegiato al lavoro; poco importa che questo sia il frutto di affari più o meno leciti.
Bodil (Sidse Babett Knudsen) accudisce i suoi tre ragazzi, mitigandone le tensioni interne e mostrando ancora una volta attraverso la norma violata, funzioni e connessioni valoriali strettissime tra mafia e famiglia tradizionale.
Una macchina rovesciata per uno schianto violento, il corpo di una donna intubata e in fin di vita, la voce di una ragazza che parla del legame con la madre, di quello con la zia e di qualcosa che è andato storto.
Il primo frammento ellittico e sensoriale, imposta tutto il film della Nordhal, fino all’improvvisa impennata che cambia il percorso di formazione di Ida, diciassettenne orfana di madre, spedita dalla zia Bodil attraverso i servizi sociali. Interpretata da un’intensa quanto impenetrabile Sandra Guldberg Kampp, la ragazza entra nel nuovo e già formato assetto famigliare con uno sguardo che assume il peso della violenza maschile, schiacciato sulle potenzialità di autoaffermazione delle donne, veicoli, ancelle oppure testimoni silenti e protettive delle dinamiche di sopraffazione.
Non si tratta di rilevare un nuovo sistema di segni, ma di intercettare, nello spostamento di intensità dalle azioni della madre allo sguardo che la inchioda al suo ruolo, tutti gli elementi costitutivi e quindi distruttivi dei legami costruiti e mantenuti all’interno di una famiglia.
Ida occupa uno spazio di confine, al centro delle energie che danno vita all’abuso e allo stesso tempo, orfana accudita con grande riguardo, parte di un nucleo ereditario dal quale non è possibile alcuna deriva.
Queste energie vengono sottolineate dalla Nordahl con la costruzione di un apparato tensivo che procede almeno in due direzioni. La prima scandisce una serie di attività di “polarità” maschilizzata che trattengono l’esplosione della violenza nella coazione a ripetere. Il rituale della palestra e l’ossessione per i videogiochi, le grandi colazioni allestite da Bodil intorno ai propri figli, l’accelerazione dei corpi e della loro tattilità nell’ambito del clubbing.
Al contrario e per sottrazione, l’ambiente della casa, disadorno e ridotto all’essenzialità delle funzioni, introduce senso di precarietà e minaccia, con l’attenzione della regista danese al tempo dell’inquadratura come elemento di sospensione e di attesa rispetto all’ipertrofia maschile che permea un’immagine dalla qualità quasi aptica.
L’attesa e l’adrenalina, il corpo e il vuoto di una comunità assente al di fuori del nucleo più stretto, sono gli estremi entro cui Wildland si muove, mantenendosi sempre al di qua rispetto alla scarica di violenza allusa.
La consapevolezza di Ida è quella acquisita progressivamente da un esiliato; sul crinale tra meraviglia e orrore, sperimenta il “terrore di girovagare” nel contrasto tra mondo esterno e identità negata. La percezione del primo avviene attraverso il vicolo cieco dell’abuso, riflesso dallo sguardo femminile, quello della ragazzina che potrebbe assistere all’esecuzione del padre, oppure nei segni di un corpo violato, quello di Anna, interpretata da una dolente Carla Philip Røder, vera e propria rilettura tragica e senza alcuna speranza della pupa del gangster, corpo destinato a servire, a soffrire e a partorire.
Rispetto a questa dinamica esperienziale, Ida non chiude gli occhi ma cerca di chiuderli agli altri, cercando di frapporre un velo tra l’esplosione della violenza e i suoi effetti.
L’educazione affettiva in seno alla famiglia criminale, segue allora un percorso impercettibilmente diverso nel film della regista danese, rispetto al lungo percorso di osservazioni antropologiche che hanno attraversato la storia del cinema. Lo slittamento è quello dello sguardo femminile di Bodil, madre e veicolo di un codice tribale declinato al maschile, nel cortocircuito con la presenza di Ida, l’unica in grado di disinnescare la narrazione generazionale, sospesa tra la possibilità di cambiarne l’assetto oppure esserne irrimediabilmente assorbita.
Il suo ruolo sacrificale e la pena scelta nel rispetto di un codice ereditario è forse una delle immagini più semplici e potenti sul potere dell’amore famigliare come gene primario della sopraffazione. Ogni corpo estraneo in grado di distruggerne la sopravvivenza deve essere delegittimato e annientato.
Wildland è un film scarno, lontano da qualsiasi tentazione simbolica, affida allo sguardo di Sidse Babett Knudsen l’opposizione crudele tra identità e comunità, come se al riconoscimento reciproco delle differenze, si fosse completamente sostituito l’annichilimento totale nell’identico.
Quando Ida sceglie il bene della sua piccola collettività, la mafia e il crimine perdono i connotati specifici, per fondersi con quelli di una famiglia comune: carne e sangue (Kød & Blod)