Mamoru Hosoda è certamente uno degli autori più importanti del cinema d’animazione contemporaneo Giapponese; l’apprendistato alla Toei Animation e la lunga esperienza con la Madhouse, gli hanno consentito di fondare nel 2011 la sua personale factory di produzione, lo Studio Chizu, nuova fase della carriera di Hosoda, e struttura che ha appunto realizzato nel 2012 il film più recente della sua produzione, Wolf Children, dopo ottimi titoli come The Girl Who Leapt Through Time (La ragazza che saltava nel tempo) e il più recente Summer Wars. L’autore dei Digimon ha consolidato nel tempo una sua solida poetica, più volte associata ad una possibile e ingombrante eredità, quella lasciata da Hayao Miyazaki.
Da un punto di vista industriale, il successo degli ultimi film di Hosoda e in particolare di Wolf Children, fanno certamente pensare ad un fenomeno importante nel vasto settore degli anime Giapponesi, sempre e comunque a rischio saturazione e il più delle volte assorbito da una florida tradizione televisiva; mentre da un punto di vista filosofico ed estetico, il cinema di Hosoda sembra solamente in parte legarsi ad alcuni temi cari al maestro di Studio Ghibli, affrontando aspetti quali il dissidio tra natura e tecnologia che in Summer Wars, per esempio, assumevano caratteristiche molto più mostruose e mutogene, anche tra due stili di animazione diversi, mandati in cortocircuito nella direzione di un’inquietante lettura dell’immagine virtuale che per spessore cognitivo non aveva niente da invidiare ai mondi possibili di Mamoru Oshii.
Wolf Children spazza via lo scenario multilivello di Summer Wars e si sviluppa con le caratteristiche di un racconto morale di separazione dalla realtà urbana; un ritorno ai valori della terra che ovviamente ricorda alcuni titoli Studio Ghibli, ma che conserva dentro questo seme ideale, gli aspetti più mostruosi di una natura ambivalente, quella che riconosce nella mutazione, anche traumatica, il segno di una libertà difficile e a tratti mostruosa; tema che ci sembra l’ossessione principale del cinema di Hosoda.
L’autore Giapponese, in una recente intervista, ha raccontato come l’idea di Wolf Children sia nata da un suo incontro con una giovane madre, che consentiva ai suoi figli di convivere in casa con animali selvaggi e feroci; un’ipotesi che Hosoda ha aggirato immaginandosi una madre costretta ad allevare animali selvaggi come fossero figli, o viceversa.
Hana è una studentessa di 19 anni dell’università di Tokyo; durante le lezioni di storia si avvicina ad un ragazzo senza libro di testo. Di li a poco, tra i due sboccerà l’amore, che Hosoda descrive con una serie di bozzetti isolati, di potente leggerezza, segno già preciso delle abilità del regista come abile architetto di narrazioni, rispetto alla tendenza di Hayao Miyazaki di dissolvere l’architettura in una pura visione fatta di infinite mutazioni a vista.
Il giovane Ookami si rivelerà presto agli occhi di Hana come un vero e proprio mutante, un uomo-lupo che può assumere entrambi gli aspetti, vivendo così tra istinto e società. Contro ogni convenzione, i due ragazzi cominceranno una vita insieme; Hana darà alla luce due figli, e poco dopo la nascita di Ame, il più piccolo, Ookami sarà ritrovato morto da Hana sul greto di un fiume, nel suo aspetto di lupo, mentre un team di sicurezza lo sta portando via.
È una sequenza tragica che delinea sin da subito il contesto di clandestinità in cui Hana si muove, costretta a trattenere il dolore e a scegliere quindi una vita separata dalla città, dove il contatto con la natura possa segnare un limite indistinto tra la presenza dell’uomo e la sua fusione con gli elementi.
Raccontato dal punto di vista di Yuki, la primogenita di Hana, il film sviluppa un racconto di resistente autarchia, la cui forza e semplicità, risiede in un tratto, visivo e narrativo, che almeno nella sua parte centrale ricorda i racconti bucolici non riconciliati, quindi anche “feroci”, di Isao Takahata, più che il panteismo alla Miyazaki.
Wolf children è un vero e proprio racconto di formazione, con l’educazione dei figli posta al centro di un’equilibrio difficile tra regole e istinto, libertà e dogmatismo famigliare, protezione e amore. Yuki e Ame non possono controllare la loro parte istintiva, e con le loro improvvise trasformazioni ferine, ereditate dal DNA del padre, rischiano di vanificare la vita di Hana ritiratasi in campagna, a pochi chilometri da una piccola comunità rurale. Hosoda ci mostra l’adattamento di Hana ad una natura difficile che deve essere compresa a partire dai suoi ritmi naturali, dove l’intervento dell’uomo ha una valenza importante ma collaterale, e lo sguardo infantile è posseduto da un occhio trasparente, senza filtri, con l’osservazione della natura al centro.
Si svela progressivamente una simbiosi complessa tra la presenza della società esterna e la libertà innocente e crudele degli animali; in fondo come se si raccontasse quella vicinanza alla purezza dello spirito che attraversa gli occhi e il corpo dei bambini, e la perdita di questa stessa purezza nelle regole sociali imposte dagli adulti.
La stessa comunità che si stringe intorno ad Hana, è in grado di scorgere l’invisibile come qualcosa di assolutamente connaturato all’ambiente; tanto che di fronte ad alcune trasformazioni irrivierenti di Yuki, molti di loro in fondo non ci faranno caso; lo stesso vecchio che aiuta Hana a coltivare la terra intorno alla casa restaurata, le parla con un linguaggio acquisito dalla contemplazione di un ciclo; l’anziano signore ha smesso infatti di andare a scuola molto presto.
E se Yuki, dopo una prima infanzia totalmente selvaggia, vivrà la parte animale della prima adolescenza come un trauma, cercando conciliazione nello studio, nella volontà di imparare le regole scolastiche di convivenza, nel primo vestito cucito dalla madre, Ame, superata un’infanzia di paure e vicinanza alla stessa, si staccherà da Hana preferendole i lupi e la montagna; Hosoda chiude infatti questo racconto con un bellissimo momento di perdita come espressione profonda di amore. Amare come “lasciare andare” e forse anche come perdita del “se”; non è solo Ame che corre con i lupi della montagna, ma è proprio Hana, esausta sotto la pioggia del bosco, che ricorda le donne nel cinema di Naomi Kawase quando si perdono, sovrastate dalla natura.