Dopo il debutto in sordina nel 2011 alla Casa del Cinema di Villa Borghese con il motto ‘Mamma li Turchi’ e Ferzan Özpetek Presidente onorario, il Film Festival Turco di Roma arriva felicemente al terzo anno dal 26 al 29 settembre 2013, ospitato nel più ampio Multisala Barberini, con il contributo del Ministero della Cultura e del Turismo e con il fondo di promozione del Primo Ministero della Repubblica di Turchia. Evento di quest’anno è la retrospettiva dedicata a Yılmaz Güney (Adana, 1937 – Parigi, 1984), il più grande regista turco, di cui saranno proiettati alcuni lungometraggi nella sezione In memoriam:
Arkadaş (L’ Amico)
Umut (La speranza)
Sürü (Il Gregge)
Di origine curda, impegnato politicamente fin da giovanissimo ed entrato nel mirino dei governi e delle forze dell’ordine nei vari cicli della travagliata storia turca, Güney era fuggito in Svizzera dal carcere in cui era detenuto dal 1975, condannato in un processo molto sommario per aver sparato ad un giudice. In carcere aveva scritto le sceneggiature dei suoi ultimi film, tra cui Yol, lavorando in condizioni molto difficili e fornendo istruzioni tecniche all’aiuto Serif Gören, che li girò. Due anni dopo aver montato e presentato Yol a Cannes, Güney morì di cancro a Parigi. Con la terza edizione il festival romano si conferma dunque importante appuntamento annuale di una cinematografia rimasta a lungo periferica, sconosciuta al grande pubblico, indubbiamente afflitta da problemi di ogni tipo. Senza andare troppo indietro nel tempo, dalla censura politica ai budget scarsissimi che negli ultimi trent’anni hanno penalizzato fortemente un cinema di qualità, c’è da gridare al miracolo se autori come Ceylan e Erdem, Alper e Ustaoglu, Turgul e Ipekci, Kaplanoglu e Aydin, lo stesso Güney, per citarne solo alcuni, siano riusciti a girare opere che meritano posti di rilievo nelle migliori classifiche mondiali.
Se il ‘tedesco’ Fatih Akin e ‘l’italiano’ Ferzan Özpetek sono nomi ormai da tempo noti al grande pubblico, ampio è ancora il cono d’ombra che copre questo grande cinema d’autore.
Dotato di forza visuale poderosa, in equilibrio fra crudo realismo e allegoria, austerità classica e vibrante passionalità, denso di simboli spesso criptati dentro scenari di nuda semplicità, portatore di un linguaggio inconfondibile, pur nella diversità dei suoi autori, il cinema turco è segnato da un’appartenenza sicura alla storia di quel Paese, ai suoi drammi, al suo colore.
Porta in sè la tristezza infinita di Istanbul, huzun, la tristezza che avvolge gli imperi che tramontano, quella “… delle sirene dei battelli che urlano nella nebbia…delle donne con le sciarpe in testa e i sacchetti di plastica in mano…dei gabbiani immobili sotto la pioggia sulle imbarcazioni piene di cozze e alghe…” (Orhan Pamuk, Istanbul, 2006) e il ritmo travolgente dei Baba Zula, nei battelli sul Bosforo, a bere thé alla mela, o nelle bettole davanti a bicchieri di raki.
L’impegno civile è il suo connotato più solido, declinato in forme e modi che ognuno traccia secondo i propri stilemi, ma che fanno della riflessione politica un passaggio nodale, un segno distintivo. Il tema dell’esilio, l’emigrazione, la questione curda, la violenza carceraria e il dibattito sui diritti civili, il ruolo della donna, lo scontro/incontro fra tradizione e innovazione, nulla manca a questa che a ragione possiamo definire ‘nouvelle vague’ del cinema turco, in questo senso molto vicina all’impegno ideale di un certo cinema delle nostre migliori stagioni passate. L’epica corale del cinema di Guney che getta fasci di luce su tragedie collettive, lo scavo esistenziale nelle vite individuali del cinema di Ceylan, i personaggi folli e catartici di Erdem e gli eroi simpatici, romantici e disperati come Idris di Turgul, affollano un cinema in cui la vita sembra continuare come sempre, non diventa scenario di situazioni estreme, pur muovendosi costantemente sul limite. Regno dell’antiretorica, affida al linguaggio visivo il compito di raccontare, commentare, scoprire. Tempo geografico, tempo sociale e tempo individuale si fondono nei tre piani degradanti di quello che Braudel chiamò l’évenémentiel. Paesaggio e uomo si specchiano nella cinepresa, l’avvenimento nasce lì, nell’immediatezza iconografica che rimbalza nello sguardo e nell’ascolto e diventa storia, racconto.
In questo orizzonte è dunque normale che il nome di Yilmaz Güney occupi il primo posto e sia dedicata a lui la retrospettiva di quest’anno. Cinema di testimonianza e di denuncia, ha una valenza politica deflagrante, ma è anche un grande poema sull’uomo e sul suo destino nel mondo, sulle sue contraddizioni e la sua incapacità di essere felice, a volte, sull’ impossibilità, tante altre volte. E sempre, Guney, affida all’ultima inquadratura il suo messaggio che riconduce ad un presente dolorosamente reale: “Vogliamo ringraziare tutti i nostri compagni che hanno lavorato con grande coraggio e sacrificio in mezzo alle difficoltà e alle circostanze che si sono verificate per fare in modo che questo film si realizzasse. Loro continueranno a vivere fino a quando il film esisterà”.