Palma d’oro a Cannes 1982, ex aequo con Missing, uno script apre il film: “La tristezza ha innumerevoli tonalità, diverse facce, come i fiori, gli uccelli, i venti. Io, con l’aiuto di alcuni amici a me vicini, ho cercato di spiegare la tristezza, l’amore e l’amarezza; anche se alcuni l’hanno trovata incomprensibile e impossibile.”
Yol è la strada, un simbolo forte, sulla strada l’uomo incontra l’altro uomo, ma può anche perderlo e perdersi. Il tempo del film è scandito dai mezzi di trasporto: un traghetto per raggiungere la terraferma, poi autobus, treni e infine cavalli, dove le strade si allontanano dai paesi e penetrano nelle gole più interne dell’Anatolia, fino alle montagne del sud-est adiacenti a Siria e Iraq. Le strade che si separano sono quelle di cinque detenuti in licenza di otto giorni, dopo anni di galera nel penitenziario dell’isola di Imrali. Il film ne segue il viaggio fino al ritorno. Sulla cima dell’altopiano la strada sparirà del tutto, e allora la marcia sarà a piedi, affondando nella neve, coperti da poveri mantelli.
Güney dice che la tristezza ha innumerevoli facce e tonalità. Questa di Yol è la tristezza di un popolo intero e della sua vicenda secolare, e lo score firmato da Zulfu Livaneti Kendal la trasforma in note che accompagnano gli uomini lungo quelle strade. Nelle storie di Güney la tristezza è quella di un presente dove le ferite nel corpo vivo della nazione sono ancora tutte aperte. Road movie tra campagna e povere cittadine dell’interno, montagne dimenticate dal mondo e pianure coperte dal giallo intenso dei fiori di colza, paesi affondati nella polvere o nel ghiaccio, scorre davanti ai nostri occhi uno Stato di polizia datato 1980.
Posti di blocco e continue richieste di documenti sui treni, condizioni carcerarie ai minimi storici, braccia alzate e perquisizioni, sguardi impietriti di fronte ai fucili puntati, coprifuoco e violenta attività militare nelle province curde. Vita in prigione e vita fuori non sembrano diverse, ma quello che Guney vuole che emerga in tutta la sua forza sono le contraddizioni di questa cultura, in cui tirannia e repressione politica sono la faccia di una medaglia che reca, sull’altra, la permanenza di costumi tribali, di barbarie millenarie, di assurde e incomprensibili violenze sulla donna.
Tristezza è nelle facce di Seyit (Tarik Akan) e Mehmet (Halil Ergün) mentre tornano alle famiglie devastate dal peso di tabù atavici che negano la pietà e l’amore, e in quegli otto giorni assisteranno al naufragio delle loro vite.
E’ negli occhi di Omer (Necmettin Çobanoglu) che nel suo paesello dalle case di sabbia, sul confine siriano, vede tornare gli uomini cadaveri sui carri dell’esercito e sparire in lontananza la dolce fanciulla che poteva essere la sua donna. Lui è un curdo, non può permettersi di tornare in carcere. Partirà a cavallo con i compagni in cerca di una libertà impossibile.
Tristezza è nello sguardo di Yusuf (Tuncay Akça), il più giovane, un piccolo uomo goffo e buono che perde sul treno il foglio col permesso del carcere e dovrà tornare in cella. Il canarino che voleva portare alla moglie resta nella sua gabbietta sull’autobus.
E infine tristezza è l’amore di Ziné (Serif Sezer) che piangeva felice quando Seyit le suonava il flauto al tempo della sua libertà. Ma Ziné deve morire, l’onore della famiglia lo esige, è la donna che ha tradito, poco importa che del marito, per anni, si fossero perse le tracce in un paese dove finire in carcere è come morire. La donna dovrà attraversare con lui e il figlio una purissima distesa di neve dal biancore accecante per tornare alla casa che ha lasciato, e quel cavallo morto di freddo e di fatica steso sulla neve è un presagio funesto.
“Ho preso la mia decisione molto tempo fa. E’ il mio dovere” dice Seyit, dev’essere lui ad ucciderla, ma poi la natura, pietosa, non lo permetterà e farà tutto lei in un autentico delirio di stilizzazione visiva.
Mevlat (Hikmet Çelik) è il quinto uomo sulla strada. Con lui la tragedia si trasforma in farsa, è il personaggio necessario per far esplodere le contraddizioni di quella società. Il suo decalogo autoritario dettato alla futura moglie è l’apologia della violenza accettata come legge divina. Meral (Sevda Aktolga) si prepara a diventare la sua schiava mentre, adorante e orgogliosa, lo guarda parlare:
” Sei così bravo con le parole. Dove hai imparato a parlare così bene? In carcere?”
Crediamo che Meral non avrebbe smesso di adorarlo nemmeno se l’avesse visto entrare, la sera stessa, in quel bordello dove Mevlat comprerà senza problemi carne umana.
Nell’’82 Wenders girò Chambre 666, un corto in cui quattordici registi parlarono del destino del cinema riflettendo su un testo da lui proposto. Tutti passarono in quella stanza 666, soli davanti ad una cinepresa con bobina di 16 mm, e li vediamo e sentiamo parlare. Di Yilmaz Guney sentiamo solo la voce registrata. All’epoca era colpito da mandato di estradizione del governo turco e rifugiato in un luogo sicuro, un esilio in cui morirà senza mai tornare in patria.
In Chambre 666 ascoltiamo quello che dice sul ruolo del cinema, arte che dev’essere attenta alle esigenze del popolo, alle sue rivendicazioni , testimone della sua presa di coscienza. Il cinema come arte si preoccupa dell’uomo, dice Guney, il cinema come industria cerca solo il profitto. Nel suo paese il cinema dominante è un cinema reazionario colluso con il potere, ma esiste una forza giovane che bisogna aiutare : “… germi di un cinema giovane che le forze dominanti reprimono e vogliono ridurre al silenzio per mezzo di misure penali, punendoli per il solo fatto di esistere”.
Yol e il successivo Duvar (Le mur) appartengono ancora oggi a quel cinema giovane.