Paolo Sorrentino, fin dagli esordi, ha cercato in tutti i modi di rendere immediatamente riconoscibile il suo cinema, come se le ossessioni, i temi e i luoghi ricorrenti, l’architettura dell’immagine e la geometria dei movimenti fossero gli elementi di una semantica fondata sull’evidenza del segno.
È un aspetto innegabile e per noi assolutamente negativo, perché sottolinea la presenza dell’autore con quella prevalenza calligrafica che in certi casi affligge i cineasti stanchi, a fine carriera e gravidi di riconoscimenti, dai quali ci si aspetta quell’immagine, quella situazione, quell’atmosfera.
In questo senso Sorrentino costruisce blockbuster con il bollino blu dell’autore, rivolgendosi ad un certo tipo di pubblico e ovviamente senza l’onestà artigianale e vitale del cosiddetto cinema dai grandi numeri.
Come a dire che in un certo contesto, se ti servi di David Lang per la colonna sonora originale, se inserisci i Godspeed You! Black Emperor, se sei così “originale” da selezionare un brano dei coltissimi Rachel’s, conquisti una zona di sicurezza che per lo meno può ambire all’ostentazione della “diversità”. Quale sia questa diversità e soprattutto che sostanza abbia è tutto da stabilire, al momento ci interessa sottolineare che il metodo Sorrentino, dal primo film fino a Youth, non è mai cambiato.
L’utilizzo delle musiche, oltre a rappresentare un involucro di lusso, definisce personaggi e ambienti proprio a partire dalle caratteristiche d’ameublement, sono tinte che si accordano con la parte più esterna dell’immagine descrivendone lo spazio secondo coordinate superficialmente sinestetiche. Un esempio specifico di questa relazione tra suono e immagine è presente proprio in Youth, quando Michael Caine guida la direzione di una musica immaginaria in mezzo ad un prato delle alpi svizzere regolando muggiti e campanacci. Invece di evocare una dimensione metafisica, come vorrebbe costantemente suggerirci il cinema del regista napoletano, con le levitazioni ostentate en plein air, l’apertura dello spazio architettonico verso l’espansione onirica, la relazione “estetica” tra corpi e volumi, questa combinazione tra immagine e suono rimane in superficie, non buca l’inquadratura ma al contrario ne sottolinea la composizione equivocando l’idea di un’immagine contemplativa con la disposizione di corpi, oggetti e colori.
Questa propensione all’ornamento è chiarissima osservando diacronicamente la filmografia del regista napoletano e prendendo in esame gli ambienti: l’hotel de “Le conseguenze dell’amore” e di “Youth“, la Roma immaginata de “La grande bellezza“, l’America mai vista di “This Must Be the Place“, l’Italia tra terrazza e “palazzo” ne “Il Divo“, la separazione dal mondo in “Youth“. Ai luoghi si aggiungono i temi che questa drammaturgia dello spazio include, ovvero il desiderio e la morte, le pulsioni creative e l’annullamento, l’oblio e l’estasi.
È uno schema preciso, sempre uguale a se stesso, e rappresentato attraverso il raggelamento dell’immagine operato con i mezzi di una retorica linguistica molto più evidente di quella utilizzata da Giuseppe Tornatore, al quale va riconosciuta la capacità di avvicinarsi a quel cinema, per quanto abusato, onestamente radicato nella tradizione del set come organizzazione di un mondo collettivo complesso e molto più aperto delle macchine celibi Sorrentiniane.
Ecco allora i corpi di Youth, la loro decadenza fisica, il contrasto con le tette di marmo di Miss Universo, le geometrie dell’hotel e l’innesto di una natura già inquadrata come bozzetto artificiale, tanto da temere persino la vertigine dell’altezza, basta pensare a quel quadretto così composto che avvolge in un abbraccio posturale Rachel Weisz e il nuovo amante alpinista, sono tutti motivi di un’armonia cosmica che Sorrentino vorrebbe farci credere “semplici”, come gli ultimi lieder di Strauss dedicati alla moglie soprano Pauline Strauss-De Ahna, scritti per descrivere il ciclo vitale fino all’interrogativo estremo “Ist dies etwa der Tod ?“.
Le “simple songs” sembrano alludere a questa cultura da salotto, non tanto per i riferimenti più o meno espliciti, ma per la volontà di trasformare ogni elemento in campo in un segno marcatamente pregno, quasi fosse un tutorial ad uso e consumo degli allievi delle scuole secondarie, proprio per i suoi continui rimandi didascalici: i dialoghi, il cinema nel cinema, Jane Fonda come una Lauren Bacall in cancrena, la maschera orrorifica della sempre splendida Sonia Gessner la cui postura statuaria, mentre altrove si eseguono per l’ultima volta le celeberrime “songs”, torna a suggerirci quello che non ci è più possibile immaginare.
Del ciclo tra vita e morte Sorrentino sembra preferire il teatrino della seconda, un’ipostasi del potere nella sua fase terminale, si proprio quello che plaude al suo cinema.