[La foto di copertina è di Maki Galimberti]
Quel passaggio senza soluzione di continuità tra realtà e immaginario che per Jean Rouch era essenza stessa del cinema, nei lavori di Yuri Ancarani, affascinanti oggetti liminali, diventa peculiare per lo spettatore, da subito al centro di una realtà che non conosce, filmata in dettaglio dall’artista ravennate. Nella filmografia di Ancarani, il regime immersivo dello sguardo diventa evidente con Piattaforma Luna, dove l’estrema prossimità alle norme e al rigore delle misure che regolano la vita all’interno di una camera iperbarica genera un avvitamento percettivo non così distante da quello della fantascienza Markeriana, futuro anteriore in senso letterale, con la complessa architettura tecnologica che costringe gesti e movimenti a recuperare la dimensione rituale, mentre sullo sfondo i dispositivi meccanici e quelli idraulici sembrano emergere dall’immaginario della letteratura tardo ottocentesca.
Immersivi sono anche l’occhio e l’orecchio per come vengono stimolati in Da Vinci. Il capitolo conclusivo della trilogia sul lavoro inaugurato con Il Capo , fin dalla prima sequenza chirurgica filmata “all’interno” del corpo, ci spinge ad essere sguardo e suono, conferendo alla visione caratteristiche che superano il regime scopico della prospettiva cinematografica novecentesca per calarsi completamente in quello dell’immagine digitale, dove la prassi esperienziale fa saltare in aria tutti i livelli di intermediazione.
In questo senso Da Vinci, osservazione ravvicinata nell’ambito della chirurgia robotica, esce violentemente dall’immersività digitale con un movimento chiarissimo e si avvicina nuovamente alla presenza umana, il cui terrore panico di fronte all’avanzare della macchina, viene filmato da Ancarani infondendo vita propria al dispositivo e sovrapponendosi ad un immaginario che si è sedimentato anche in quello cinefilo attraverso i film di Donald Cammell, Douglas Trumbull, Shinya Tsukamoto, Ridley Scott.
Persiste in Da Vinci il delinearsi di una lingua arcana, fatta di segni e convenzioni sconosciute, frutto di un metodo sorprendente che Yuri Ancarani ci racconta in questa lunga intervista, animato dalla curiosità empirica di un apprendista che si avvicina al contesto esplorato con la stessa ansia di conoscenza dello spettatore. Il livello, in modo diverso ma allo stesso tempo molto vicino a quello di Roberto Minervini, è lo stesso delle persone che abitano la realtà filmata, rispetto alla quale Ancarani si conquista rispetto e fiducia, vero e proprio metodo di lavoro che spezza gli argini di un cinema, come quello italiano ed europeo, troppo spesso concepito a partire da un presupposto “autoriale”.
Ancarani è ovviamente autore acuminato, ma il suo lavoro non sembra promanare da un disegno calcolato, quanto dalla celebrazione di una liturgia anti dogmatica, che acquisisce di volta in volta codici ormai invisibili, segni di un sapere nascosto, pur partendo da superfici visibili ed esposte.
San Siro sembra imbastire un rapporto strettissimo con Da Vinci, nel modo in cui la superficie architettonica dello stadio prende vita assorbendo i corpi, i gesti e le figure umane in un nuovo soggetto tra organico e inorganico, dove i volumi razionali, lo sviluppo a spirale e le stratificazioni strutturali vengono filmate e sconnesse rispetto alle numerose sorgenti sonore, in un lavoro di montaggio tra video e audio frutto del dialogo che Ancarani instaura con il sound designer Mirco Mencacci, tra i più talentuosi montatori sonori del nostro paese e in questo o in altri contesti con musicisti come Ben Frost (in Piattaforma Luna) e Lorenzo Senni.
Séance sembra riassumere e allo stesso tempo spingere il lavoro di Ancarani in uno spazio ancora più radicale. Nato collateralmente alla mostra Shit and Die curata da Maurizio Cattelan, Myriam Ben Salah e Marta Papini, viene filmato a Torino dentro le stanze di Casa Mollino, ambiente stratificatissimo e ricco di segni appartenuto all’architetto, fotografo, scrittore e designer, oltre che aeronautico e pilota automobilistico, Carlo Mollino scomparso il 27 agosto del 1973.
Mollino viene evocato dalla sensibilità medianica di Albania Tomassini mentre Ancarani si sofferma sulla resilienza materiale degli oggetti rispetto al tempo e il corpo emerge dalle simmetrie della visione attraverso le polaroid distanti e allo stesso tempo carnali realizzate da Mollino. Anche in questo caso il lavoro di Mirco Mencacci è assolutamente esemplare, non solo per la qualità sonora della voce della Tomassini, quasi tenuta a distanza dentro un’aura sonica irreale, ma anche per le stratificazioni vocali che si intersecano con lo spazio visivo come se fossero voci dall’aldilà o le sperimentazioni microtonali sulla voce umana realizzate da Alvin Curran.
“Credo in questo film” ci ha detto Ancarani durante questa lunga conversazione, quasi ad indicarci un livello interpretativo di confine, tra realtà e psiche.
La prima domanda è a carattere generale ed è relativa ad una traccia che mi sembra di poter identificare nel corso dei tuoi lavori, a partire dai primi raccolti in “Ricordi per Moderni”. Mi riferisco alla relazione tra corpo e ambiente, dove l’attenzione che hai sempre dimostrato per gli interstizi del visibile sembra aver assorbito lentamente la presenza umana in un percorso che dalla dimensione sinestetica passa per quella tattile e soprattutto gestuale, la include successivamente in quella meccanica e architettonica, per approdare con “Séance” ad un cinema dove il corpo è assente…….
In realtà Mollino viene inquadrato nel film. Quando la Medium fa la domanda e attraverso la sua voce risponde “Tutto quello che ho costruito l’ho costruito per me” io inquadro il tavolo come se lui fosse effettivamente seduto in quella posizione.
….e vero, ma in qualche modo si deve ricostruire la sua presenza attraverso la stratificazione di altri segni, mi chiedevo quindi se questo assorbimento del corpo lungo il corso dei tuoi lavori sia parte di un voluto e lento processo di sottrazione.
Io lavoro molto con l’inconscio, concettualizzare questo processo diventa quindi molto difficile. Da poco ho realizzato un’installazione, sempre concepita come un film, ma allestita su due schermi sincronizzati, uno sovrapposto all’altro. Il titolo si riferisce ad una divinità Haitiana vudù, Baron Samedi, che viene rappresentata attraverso le immagini di un cimitero attraversato da alcune capre, ovvero gli animali che vengono sacrificati in suo onore. In questo senso il corpo è ovviamente assente, ma rispetto alla tua domanda invece di parlare di un vero e proprio processo di assorbimento, posso dirti di essere da sempre interessato a raccontare delle storie che siano in grado di raccontarne altre, generando così più di un livello di lettura. Se prendi San Siro, è certamente il backstage di una partita di calcio, ma parliamo anche dell’uomo e del bisogno di credere in qualcosa, mentre Séance si riferisce alla missione che l’uomo stesso si trova a svolgere su questa terra. Piccole storie che mi circondano e che, su un piano differente, possono diventare storie più grandi sull’esistenza. In questa relazione tra micro e macro, il rapporto con la natura è certamente presente, ma non è esattamente il mio interesse principale, perché quello che cerco di individuare riguarda maggiormente i contrasti e gli opposti. In questi termini si può arrivare anche ad un’interpretazione come quella che hai fatto tu.
San Siro – di Yuri Ancarani – trailer
Mi veniva in mente, da una prospettiva opposta, la sopravvivenza di una narrazione di genere nei tuoi film. La fantascienza di “Piattaforma Luna”, le caratteristiche mitologiche de “Il Capo”, la tensione quasi horror in “Da Vinci” e in “Séance”. È un codice che scegli in fase di scrittura oppure emerge in base a quello che scopri nelle realtà in cui ti immergi?
C’è un aspetto importante nel mio modo di lavorare: il film prende forma durante l’esperienza della lavorazione. Per quanto riguarda Piattaforma Luna per esempio, conoscevo il lavoro dei sommozzatori che si immergono a grandi profondità, ho incontrato dei diver, ma non ho mai potuto vedere la location dove avrei girato. Quando sono riuscito ad entrare nella camera iperbarica grazie ad un permesso che mi ha consentito di starci per tre giorni, in quel momento è nato il film. Puoi quindi immaginarti le condizioni di grande stress in una situazione del genere. Noi ascoltavamo le istruzioni attraverso una voce che arrivava dal controllo e che verificava la nostra situazione, perché quando sei dentro una camera iperbarica non puoi praticamente fare niente e anche un’azione banale come accendere la luce deve essere chiesta al controllo. Il controllo stesso comunica attraverso una videocamera con una forma del tutto particolare e la sensazione era davvero quella di trovarsi dentro un film di fantascienza. Questo ha stimolato certamente alcune idee senza avere ovviamente il supporto di una sceneggiatura, tanto che poco dopo l’ingresso in questo spazio mi ero immaginato da subito un finale, relativo ad una persona che avrebbe dovuto aprire una grande valvola sott’acqua. Non è stato possibile realizzarlo a causa di un’emergenza che oltre ad uno spostamento, ha costretto per tre giorni i diver a tirare martellate per riparare la perdita di un tubo di un’altra piattaforma. In un contesto come questo, tenuto in piedi da un complesso sistema tecnologico, seppur vecchio e decadente, la banalità delle martellate creava un contrasto talmente forte da rendere quasi obbligata la forma fantascientifica.
Lo stesso Da Vinci ha un’atmosfera fantascientifica con una declinazione certamente horror e corrisponde anche al senso di terrore che ho provato quando sono entrato per la prima volta dentro la sala operatoria. In questo senso ho un approccio assolutamente empirico, dove cerco di far confluire tutto l’insieme di sensazioni che ho provato durante il primo contatto con l’esperienza filmica. Quando per esempio il tecnico di sala ha dovuto fare il check mensile del robot muovendone tutti gli arti, per me rappresentava la macchina che acquisisce vita propria prendendo il sopravvento sull’intervento umano, una sensazione immediata che ho in qualche modo inserito nel film. In Da Vinci ci sono anche alcuni aspetti non facilmente decifrabili, per esempio ho scoperto che in ambito chirurgico c’è un alto livello di competitività, ma soprattutto c’è questa idea tra la convenzione e la diceria, secondo la quale le donne non sarebbero in grado di operare, per la mancanza di self-control che invece caratterizzerebbe il lavoro degli uomini. Proprio per questo motivo ho scelto immediatamente una donna, per contrastare lo sviluppo di una mitologia e soprattutto per dire che se c’è qualcuno con il diritto di entrare dentro ad un corpo, questa secondo me è una madre. Un altro aspetto di lettura non così immediata, riguarda la cattiveria della macchina; il robot ad un certo punto viene filmato come se avesse dei bulbi oculari rossi, questo si riferisce alla disumanizzazione della chirurgia robotica. La chirurgia robotica è in questo senso assolutamente utile per alcuni tipi di operazione, ma si perde del tutto il rapporto che il chirurgo instaura con il paziente, ma anche quello che può avere con la ferrista, assolutamente incredibile e fatto di manualità. Questa dimensione non esiste più, perché nella chirurgia robotica il tipo di rapporto è lo stesso che c’è tra un operatore e il suo computer. Questi sono elementi che ho in qualche modo raccolto mentre ero sul posto, parlando con i chirurghi e in qualche modo assimilando le loro perplessità di fronte a questa nuova tecnologia.
È molto interessante quello che dici, è come se il tuo sguardo posto nel cuore di una realtà che ti è sconosciuta fino a quel momento, si allineasse a quello dello spettatore….
Si, è assolutamente così. Lavoro sempre con lo stesso gruppo di lavoro e un po’ di tempo fa Mirco Mencacci, il mio sound designer, per spiegare ad un suo assistente il mio modus operandi gli diceva: “Yuri lavora in modalità aperta”, questo significa che non sappiamo esattamente cosa si deve fare fino a quando non siamo sulla location.
Mi sembra assolutamente vitale. Quindi che grado di complicità stabilisci con le persone che attraversano il tuo cinema, soprattutto con quelle con cui hai condiviso un’esperienza fisica forte, mi riferisco alla trilogia sul lavoro…
Il rapporto che stabilisco è assolutamente intimo. Fortunatamente faccio progetti che mi interessano, non devo quindi acquisire la fiducia di qualcuno per poi tradirla. Modalità che troppo spesso accade nel mondo del documentario. Ovviamente è un mondo che frequento perché i miei lavori si basano sulla verità e l’attualità anche se tutto viene filtrato dal mio punto di vista; faccio tutti i festival del documentario, ma il mio approccio non è esattamente quello di un documentarista. Non aggirerei mai il mio soggetto per poi eventualmente tradirlo. In questo senso i soggetti dei miei lavori sono persone che amo e che sicuramente “salverò”, non devo distruggerle. Oltre alla modalità aperta di cui ti parlavo, lavoro con strumenti e dispositivi molto piccoli, proprio perché voglio realizzare le riprese in un certo modo, con poco tempo a disposizione. È un equipaggiamento di tipo leggero e a volte, quando mi trovo a lavorare con alcuni “professionisti” può diventare un problema, questo per dirti che non posso lavorare con le maestranze del cinema, perché si verificherebbe un contrasto e una discussione continua su quello che sto facendo e su come lo sto facendo: gli strumenti sono sbagliati, il mio atteggiamento è sbagliato, tutto secondo la loro prospettiva è sbagliato. Per questo ho smesso di collaborare con le persone che provengono dal contesto cinema inteso come prodotto. In questo senso allora, il modo di rapportarmi con le persone che abitano la realtà dei miei film, le induce a pensare che io non sia un “autore”, perché spesso mi trovo al loro stesso livello rispetto alla realtà che vivono.
In San Siro per esempio, la scena iniziale della pioggia è nata in modo molto interessante. Siamo andati davanti allo stadio dopo aver svolto tutta la trafila burocratica necessaria per accedere secondo le norme di sicurezza vigenti e ci siamo trovati insieme alla troupe, il fonico e gli operai che devono tirare i cavi, tutti sotto una pioggia torrenziale, mentre non ci consentivano di entrare per una comunicazione che ancora non era stata acquisita. Non avevamo alcuna alternativa se non quella di cominciare a girare in esterni. Mi sono quindi trovato in condizioni estreme, allo stesso livello degli operai che tiravano i cavi, sotto la pioggia. Questo viene percepito in modo strano, ma mi permette di lavorare più agilmente con i soggetti dei miei film. In questo senso mi conquisto il rispetto delle persone che lavorano, perché scegliendo il loro punto di vista, parto da una posizione quasi svantaggiata, dove posso essere percepito non tanto come “il regista”, quanto come il peggiore dei cavatori di marmo (N.d.r. si riferisce al lavoro sul Monte Bettogli per “Il Capo”).
Sul set di Da Vinci, per esempio, hanno cominciato a considerarmi con maggiore rispetto quando ho imparato ad identificare gli organi con il loro nome corretto. Ovviamente non è mio compito conoscere questi aspetti, ma è mio interesse acquisire rispetto durante l’esperienza sul set, mettendomi al livello delle persone che svolgono quel determinato lavoro. È una condizione strana da descrivere, ma devi pensare che in questi contesti non sono percepito come il regista che svolge il suo compito, ma come un apprendista che sta facendo velocemente esperienza; è un processo faticosissimo.
E per quanto riguarda Séance quindi? mi sembra che sia il primo film dove hai lavorato in modo specifico sulla parola, in relazione agli elementi che hanno sempre caratterizzato il tuo cinema, dal sound design fino alla relazione tra dettaglio e realtà esplorata….
Guarda, una cosa che mi dispiace di Séance è che il backstage di quel film, che non esiste, possa essere più interessante del film stesso. Perché per me un film che funziona è un film che deve stare in piedi da solo. Ovviamente sto parlando per eccesso e in forma paradossale, perché Séance sta assolutamente in piedi da solo, ma dopo averlo visto ci si può fare l’idea che dietro ci sia una sceneggiatura, mentre la realizzazione del film è tutt’altra storia. Potrei raccontartela per filo e per segno, ma preferisco tu ti faccia un’idea personale. Quando per esempio mi chiedono se la seduta medianica è vera io rispondo semplicemente che “credo in questo film”. Ti faccio un esempio più specifico: parlare di arte in ambienti artistici è un tabù, in questo senso non avrei mai potuto scrivere personalmente una sceneggiatura di questo tipo, parlando appunto d’arte, nel film in fondo è Mollino stesso che parla di arte.
In realtà vedendolo non mi sono posto il problema della sceneggiatura, ero più interessato all’introduzione della parola parlata come ulteriore stratificazione rispetto ai tuoi lavori precedenti..
Sono andato sul posto con il mio approccio di sempre, empirico, ho chiamato il mio sound designer Mirco Mencacci, per registrare questa seduta spiritica che in realtà non è propriamente tale perché Albania Tomassini si serve di tecniche molto diverse, più vicine alla telepatia (N.d.r. Albania Tomassini, psicologa torinese e seguace degli insegnamenti di Baba Bedi legati alle terapie vibrazionali e all’espressione psichica). Quello che ho preparato era quindi un set, senza sapere come sarebbe stata la seduta stessa perché non avevo mai avuto modo di vederla, né la Tomassini sapeva che sarebbe stata registrata, perché non c’era stato modo di incontrarla prima e non potevo certamente dirle per telefono che avrebbe partecipato ad un video co-prodotto da Sky e destinato alla diffusione televisiva. L’ambiente a cui appartiene la Tomassini è molto delicato, rimane nell’ombra e se emerge, questo accade tra le persone che credono a pratiche di questo tipo. L’unica chance era quindi quella di aspettarla in casa prima del suo arrivo e di parlarle un momento prima di filmare, spiegandole tutto e quindi con un altissimo livello di rischio. Albania è arrivata insieme ad un’amica con l’intenzione di coinvolgerla nella cena che era stata allestita nella casa, ma noi avevamo ovviamente apparecchiato per due, immaginandoci la seduta tra lei e Mollino; quando le abbiamo detto cosa volevamo fare, lei ci ha risposto che doveva chiedere a Mollino stesso. Ha chiuso gli occhi e poco dopo ci ha risposto che era una buona idea. A questo punto ho percepito la sua grande sensibilità, perché se dovessimo in questo momento interpretare la parte di quelli che non credono al contatto con l’invisibile, potremmo comunque immaginarci da parte di Albania, una relazione sensibilissima con l’ambiente tale da consentirle di percepire cose che noi non vediamo, considerato che Casa Mollino è un luogo ricco di informazioni. In ogni caso ha avuto la sensibilità necessaria per comprendere che si poteva fidare di me. Si è seduta, abbiamo fatto il film e ha parlato per due ore. Con me avevo due assistenti e tre camere, dovevamo lavorare in silenzio e approfittando del fatto che aveva gli occhi chiusi, ho potuto in alcuni casi lavorare anche sui dettagli della casa. Mentre filmavo non riuscivo ad ascoltare quello che diceva. Ho ascoltato le sue parole attentamente solo in un secondo momento, mentre ero a Los Angeles dove ho montato il film.
Ci puoi raccontare il lavoro che svolgi con Mirco Mencacci, che è un montatore sonoro che ha lavorato molto per il cinema italiano ma che con te sembra recuperare e portare avanti quella libertà sperimentale che aveva condiviso con Michelangelo Antonioni…
Il suono è sempre stato molto importante per me. Non pensavo fosse così importante fino a quando non ho incontrato Mirco, perché mi ha aperto nuovi mondi. Lavorare con lui è molto interessante. Mi sveglia dalla situazione in cui mi trovo in quel momento, perché io gli devo descrivere quello che stiamo vedendo; è una condizione importante dove mi trovo a costruire il film proprio nel momento in cui gli sto parlando. Oltre a questo, il suono è per me la sceneggiatura. Nel condurti dall’interno del corpo umano fino ad arrivare al videogame (N.d.r. si riferisce a Da Vinci) il racconto che viene costruito segue un percorso sonoro. In questo senso, il film potrebbe funzionare solo con le immagini, ma se le dovessi togliere, funzionerebbe anche con i suoni. Da non vedente Mirco costruisce il suono come un organismo autonomo. C’è anche un altro aspetto importante della collaborazione con Mencacci e riguarda il modo in cui ci comprendiamo a vicenda sulla sconnessione tra suono e immagine. C’è una sequenza che amo molto in San Siro, dove si sente quell’urlo fortissimo ed emozionale della folla. In quel momento si vede un muro, inquadratura fissa. Tu ti puoi immaginare l’urlo, ma non vedi la folla. Avessi chiesto una cosa del genere ad un fonico, sicuramente mi avrebbe detto che non aveva senso, semplicemente per il fatto che quello che si sente, non si vede. Se non sei un tecnico, nel senso stretto del termine, tutto funziona. Se invece hai un approccio esclusivamente tecnico, vedi un errore. Registro tutto in diretta, ma come c’è un montaggio dell’immagine, c’è anche un montaggio del suono.
La sensazione che infatti si ricava dalla percezione auditiva dei tuoi film è di tipo aptico e materico. È una dimensione tangibile molto forte che in certi momenti acquisisce qualità musicali. Mi veniva in mente la sequenza di “San Siro” in cui gli operai trascinano le transenne. In quel caso si percepisce l’origine della sorgente sonora, ma allo stesso tempo sembra che con quella venga costruito quasi un groove, un sistema ritmico-musicale, è così? Ed è voluto?
In un certo senso è anche voluto. Quando ho percepito per la prima volta questo suono bellissimo, dall’incredibile qualità musicale, ero in sala regia, e una volta uscito per capire da dove venisse, non era più possibile individuare la sorgente, perché nell’operazione di trascinamento delle transenne gli operai sono velocissimi. Il sabato successivo, percepisco lo stesso suono e comincio a cercarli. Successivamente ho detto a Mirco che questo era da considerarsi come il concerto delle transenne, così da scegliere i frammenti sonori e combinarli come se si trattasse di un vero e proprio pezzo musicale.
Anche in Piattaforma Luna c’è un approccio simile. Quando sono uscito dall’esperienza della camera iperbarica, la sensazione di claustrofobia era fortissima. Come sarebbe stato possibile riprodurla nella sala cinematografica, spazio grande dove è difficile generare quella stessa sensazione? È una domanda che ho posto anche a Mirco, che mi ha proposto la registrazione sonora di un vento sottile tarato su volumi impercettibili. Nel missaggio definitivo, quel suono non sarebbe stato percepibile dagli spettatori, ma avrebbe contribuito a creare un certo senso di nausea. Sempre per Piattaforma Luna, Ben Frost che è un artista di grande livello e che sta crescendo sempre di più, aveva inizialmente scelto un approccio troppo potente, mettendo musica sopra qualsiasi cosa e in un certo senso rischiando di invalidare il film; è un aspetto importante questo che ti sto dicendo perché spesso si verifica uno scontro tra chi lavora sul suono e chi lavora sulla musica. Per me è quindi importante equilibrare i due aspetti in modo che non si riesca a capire dove finisce la musica e quando comincia il suono. Da questo punto di vista il lavoro di Lorenzo Senni su Da Vinci è davvero notevole e molto più equilibrato, perché se Ben Frost ha lavorato modificando un suo pezzo quindi scegliendo una strada più facile e tradizionale, Lorenzo ha partecipato alla lavorazione del film in modalità aperta, osservando il robot, il joystick di controllo e tutta la sequenza del domino che si vede alla fine del film, per farsi poi ispirare dalla storia dei videogiochi, costruendo la musica a partire dai campioni dei videogame più famosi degli anni novanta, a partire da Doom.
E il lavoro sulla musica come viene combinato con quello di Mencacci sul suono?
Quando si comincia a lavorare sulla musica Mencacci esce dalla stanza, ed è assolutamente normale che sia così, sono due aspetti molto diversi. Io rimango in consolle con i tecnici e devo chiudere il film da solo, da questo punto di vista ho acquisito una buona esperienza. Tieni conto che chi si occupa di suono al livello in cui se ne occupa Mirco, per me uno dei migliori al mondo, ha un rapporto difficile con l’utilizzo della musica soprattutto in ambiente cinematografico, dove si subiscono alterazioni e soprusi per quanto riguarda il lavoro di sonorizzazione, spesso coperto dall’uso di playlist già stabilite. Da questo punto di vista Mirco non può vedere di buon occhio quel tipo di rapporto che si instaura tra musica e suono in alcune produzioni cinematografiche; mentre per quanto mi riguarda, mi sento un bravo utilizzatore del contributo musicale in rapporto al suono.
Séance – di Yuri Ancarani – il trailer
Per quanto riguarda invece la collaborazione con Maurizio Cattelan, che ha prodotto Piattaforma Luna e Da Vinci, come si è sviluppata per Séance?
Séance è sicuramente nato grazie a lui. Maurizio mi ha invitato a Torino per partecipare ad una mostra, si era molto appassionato alla gestazione curatoriale di “Shit and Die”. Se sei un maestro come lui, fai le cose con estrema cura e in questo caso ha davvero penetrato a fondo il tessuto cittadino torinese. Entusiasta della città, mi ha chiesto di pensare a qualcosa che avesse a che fare con la Torino magica; questo è stato il suo input. Ho fatto dei sopralluoghi accompagnato dalle curatrici della mostra, Myriam Ben Salah e Marta Papini. Marta mi ha accompagnato in diverse situazioni e ho scoperto mondi molto interessanti legati all’esoterismo. Ma la cosa più incredibile è che quando ho visitato la casa di Mollino, luogo interessante ma anche inquietante, ho parlato con quello che io chiamo il templare, ovvero Fulvio Ferrari, proprietario e curatore della casa museo, oltre che studioso di Mollino. Lui mi ha raccontato tutta la storia della casa molto a lungo, tanto che mi sono fermato a cena, con la possibilità quindi di capire l’ambiente attraverso i cambiamenti di luce. Mentre siamo a tavola Ferrari mi dice che nella casa ci sono molte cose per lui ancora incomprensibili e che tra una settimana avrebbe incontrato una medium alla quale finalmente avrebbe potuto porre alcune domande. Da questa conversazione è nato il film; l’ho ricontattato per sapere come era andata la seduta, per poi proporgli il progetto.
Cosa ne pensi della collocazione tra cinema e videoarte, è un aspetto che ti interessa oppure preferisci lo sconfinamento?
A me piace sperimentare, è un’attitudine che ho acquisito dal mio territorio, la Romagna, ricco di sperimentazione in ogni senso, dal teatro alla fotografia. Un valore per me importantissimo. Io sono arrivato al cinema grazie al dispositivo. Ero il videomaker che lavorava con la videocamera. Sperimentavo con quel tipo di strumenti e adesso sperimento con dispositivi più grandi. La collocazione non posso deciderla io, sono gli altri che devono farlo. Quando sono stato invitato a partecipare alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia nella sezione Orizzonti, i selezionatori avevano visto Made In Italy (N.d.r. inserito nella raccolta dei primi lavori di Ancarani, intitolata “Ricordi Per Moderni”). Secondo il loro punto di vista, la sperimentazione veniva portata avanti soprattutto in ambito artistico e l’intenzione era quella di integrare la sezione con le opere di artisti che lavoravano sul formato cortometraggio. Made in Italy era il lavoro giusto, ma erano interessati ovviamente ad un’opera inedita da presentare come premiere. Con questo approccio hanno coinvolto altri artisti, innescando un incredibile passa parola. Quando mi sono arrivate le specifiche tecniche che avrei dovuto rispettare per la realizzazione del film, sono entrato in ansia da prestazione, ma allo stesso tempo c’è stato lo scatto, il salto di qualità, perché potevo adattarmi ad un nuovo contenitore e ad un nuovo ambiente. In un certo senso ho continuato a seguire il mio metodo ma all’interno di uno standard diverso. Devo dire che in ambienti specificatamente cinematografici, vengo considerato o presentato come un artista, mentre in ambienti artistici più come un filmaker. L’unica cosa che posso fare è concentrarmi su quello che faccio. In un contesto cinematografico il mio tipo di lavoro non è considerato come un prodotto commerciabile. Il mondo dell’arte è invece molto meno interessato a questo aspetto.
Stai lavorando a qualcosa di nuovo?
Il primo è un progetto ambientato ad Haiti, una parte è l’installazione di cui ti parlavo, ma ci sarà anche un film. Il secondo invece è ambientato in Qatar. Le riprese ad Haiti sono terminate mentre in Qatar dovrò tornare. Sono due produzioni diverse, il primo è prodotto dalla francese Arte, il secondo invece è una commissione dell’Onu.