Home covercinema Yurt (Dormitory) di Nehir Tuna: recensione – Venezia 80

Yurt (Dormitory) di Nehir Tuna: recensione – Venezia 80

Film solido, ben scritto e con uno sguardo capace di elaborare un intenso lirismo dall'osservazione quotidiana, Yurt entra nei pori della Storia turca, rilevandone movimenti e ondate, attraverso il racconto intimo e personale di una stagione di passaggio. Visto a Venezia 80 nella sezione Orizzonti

I contrasti più aspri tra secolarismo e spinte confessionali nella Turchia di fine novecento, hanno segnato duramente la generazione nata nei primi anni ottanta. Nehir Tuna, da un’esperienza personale durata cinque anni all’interno di un dormitorio religioso, ha tratto linfa per il suo primo lungometraggio. Yurt è in realtà un’espansione narrativa di Ayakkabi, corto diretto dal regista turco nel 2018, dove in 14 minuti viene concentrato un episodio legato alla dura disciplina islamica, in relazione alla punizione esemplare da comminare per un paio di scarpe scomparse. Tuna lo riprende interamente e lo inserisce come digressione all’interno di un racconto di formazione molto più complesso, che lascia sullo sfondo le recrudescenze della tradizione politica kemalista, alla vigilia dell’ultimo atto nella breve parabola ministeriale di Necmettin Erbakan e il suo tentativo di reintrodurre maggiore attenzione per la tradizione religiosa.

La perquisizione delle scuole da parte dell’esercito, la paura che venga confiscato materiale arabo con irreversibili conseguenze, delineano un clima di grandi tensioni insieme alle manifestazioni violente contro la Sharia, condotte sotto il segno del nazionalismo concepito alcuni decenni prima da Mustafa Kemal Atatürk.

Il dormitorio dove viene spedito il quattordicenne Ahmet è quindi una bolla tollerata, ma seclusa dal tempo e dalla storia. Un dissidio che per il giovane assume proporzioni difficili da codificare, soprattutto quando il confronto è tra la prassi consuetudinale definita dal diritto islamico, la relazione quotidiana con la scuola laica frequentata parallelamente e le aspettative di una famiglia borghese, che attraverso il padre ha ritrovato una commistione difficilmente interpretabile tra il dialogo con Dio e il potere.

Nel limine coercitivo del dormitorio, disciplinato secondo regole ferree che forgiano la gioventù al rispetto incompromissorio della Sharia, Ahmet scopre un controcanto possibile, rappresentato dal giovane Hakan, ragazzo di strada che per ragioni socioeconomiche sovrappone l’idea e l’ipotesi di casa con la vita nello Yurt.

Lo spazio ideale per un’educazione concepita come eccedente rispetto alla dimensione sociale condivisa in una società secolarizzata, diventa attraverso il paziente magistero pratico di Hakan, un avamposto di resistenza, interiore ed esteriore, rispetto alle feroci polarizzazioni del paese. Si deve sopravvivere dagli attacchi esterni che vorrebbero cancellare quel mondo senza alcuna differenziazione, ma anche dalla brutale distorsione della realtà inoculata con una maieutica perversa e violenta dai custodi della tradizione.

Con il bianconero del notevole Florent Herry, direttore della fotografia che ha già frequentato la cinematografia turca, Tuna sceglie la strada di un lirismo urgente e vicino alle pulsioni ormonali dell’adolescenza, ricombinando di volta in volta lo spazio concepito intorno ad una formazione coatta.

Il dormitorio, mondo terribile e allo stesso tempo scrigno di scoperte straordinarie, contiene altri luoghi, numerosi rifugi e spazi di libertà clandestina che consentono ai ragazzi la scoperta di una vitalità ribollente, negata esplicitamente dal clima seminariale.

Ahmet si relaziona a quel perimetro con furia, cercando di sabotarne l’assetto e mettendo più di una volta a rischio la coesione di una comunità minacciata. Hakan, che ha imparato a sopravvivere all’intransigenza dell’Islam, media e ricuce gli strappi, per insegnare al compagno un’interpretazione più scaltra dello spazio microsociale.

L’orizzonte visuale del film collima allora con quello esperienziale, nel solco di una scoperta della vita che si avvicina a certo cinema degli anni sessanta, per temi e cornice estetica, molto meno per la scelta di un lessico specifico che in qualche modo possa ricondurci alla frammentazione del racconto nelle nuove onde europee di quegli anni. La collaborazione con il musicista turco Avi Medina conferma questa tendenza in termini emotivi, cercando con un minimalismo dall’impianto sinfonico un’accentuazione di quella tensione tragica che attraversa le pulsioni anarchiche della gioventù.
La rivolta viene allora identificata con una ricerca del proprio spazio affettivo ed espressivo.

Se Ahmet si scaglia fisicamente contro un Dio sordo alle sue richieste e che non si rivelerà mai in termini qualitativi durante il percorso, Hakan interpreta il bilanciamento tra disciplina e rottura degli schemi come una possibilità per mantenersi in bilico all’interno di un contesto che altrimenti lo rivomiterebbe ai margini di una strada. Stretto tra la morsa di un’esistenza borghese che non può vivere più e l’improvvisa adesione del padre ai desideri di una società confessionale, Ahmet spacca gli armadietti, distrugge aule, dissemina volantini arabi tra le stanze del dormitorio in un improvviso desiderio di dissoluzione. Non c’è coscienza politica, ma l’impossibilità di individuare un punto di contatto con una realtà che lo riconosca. Per Hakan, che ha tutto da perdere, Dio e la disciplina inventata per rappresentarlo, sono elementi necessari alla sopravvivenza.

Con un cinema a tratti truffautiano, cioè ancorato all’intensa qualità dei gesti ordinari, quelli che emergono dal dissidio formativo dell’adolescenza con la famiglia e l’assetto istituzionale, Yurt sceglie la via di un realismo che apre continui squarci interiori dalla collisione con l’ambiente. La lacerazione di un paese in continuo divenire si riflette nella tragica perdita di orientamento delle nuove generazioni.
Tuna parla evidentemente anche alla Turchia contemporanea, sospesa tra una rilettura dei modelli occidentali dello stato di diritto, alla luce di un acceso nazionalismo che cancella tutte le eccedenze, e il radicalismo islamico che cova sotto la cenere.
Film solido, ben scritto e con uno sguardo capace di elaborare un intenso lirismo dall’osservazione quotidiana, Yurt entra nei pori della Storia, rilevandone movimenti e ondate, attraverso il racconto intimo e personale di una stagione di passaggio.

Yurut (Dormitory) di Nehir Tuna (Turchia, Germania, Francia – 2023 – 118 min)
Interpreti: Doğa Karakaş, Can Bartu Arslan, Ozan Çelik, Tansu Biçer, Didem Ellialtı, Orhan Güner, Işıltı Su Alyanak
Sceneggiatura: Nehir Tuna
Fotografia: Florent Herry
Montaggio: Ayris Alptekin

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Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.
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