Shin’ya Tsukamoto torna a Venezia dal Giappone con furore , omaggiato con applausi entusiasti a inizio proiezione durante la prima del suo film Zan (“uccidere”), uno dei nomi più noti del cinema underground nipponico diventato negli anni un autore di culto. Tsukamoto, noto soprattutto per aver creato la saga di Tetsuo e per film a basso budget che racchiudono metafore sull’alienazione contemporanea vissute da personaggi dalla natura quasi demoniaca, come Tokyo Fist o Bullet Ballet, quest’anno porta a Venezia il suo ultimo film, che è il suo primo Jidai-geki. Un’opera intrisa di un’energia intensa, veicolata con violenza nelle crude ma bellissime immagini e trasmessa con altrettanta irruenza dalla martellante colonna sonora.
La trama di Zan è davvero essenziale. In un Giappone ormai sulla soglia del declino e in procinto di incontrare il mondo occidentale, un misero samurai senza padrone (ronin), Mokunoshin Tsuzuki, si allena con un giovane contadino per prepararsi ai futuri conflitti civili, vivendo assieme alla sorella Yu. Rompe l’equilibrio dell’addestramento l’arrivo del ronin Jirozaemon Sawamura (interpretato dallo stesso Tsukamoto), che dopo aver sconfitto abilmente un samurai nemico sotto gli occhi di Mokunoshin, diventa una sorta di punto di riferimento per il giovane guerriero. Mokunoshin su richiesta urgente del più anziano ronin decide di partire assieme a lui per unirsi ad un esercito diretto a Kyoto con l’obiettivo di sopprimere la guerra civile. Si presenta tuttavia un ostacolo: un gruppo di banditi arriva nelle vicinanze del villaggio. Provocati dal giovane contadino che si presenta davanti a loro armato, i banditi reagiscono attaccandolo brutalmente e accerchiando il villaggio. Non resta che affrontarli in uno scontro diretto. Ma Mokunoshin sembra aver problemi nello scagliare il colpo letale ai suoi nemici, incontrando un blocco personale che può mettere a repentaglio la sua vita. Jirozaemon deve insegnargli un’importante lezione, forse la più importante del mondo dei samurai: l’arte di uccidere.
Come si può ricavare già dalla sinossi, la vicenda racchiude pochi elementi e pochi personaggi, con un numero molto limitato di battute. Tsukamoto punta dunque su tre aspetti principali nella realizzazione del film; innanzitutto il sonoro, che comprende una potente melodia marziale lasciata in sottofondo sin dai titoli di testa ma anche e soprattutto tutta una serie di specifici effetti sonori, ad esempio il singolare rumore delle katane che vibrano. La colonna sonora è l’ultima firmata prima della sua scomparsa nel 2017 dal compositore Chu Ishikawa, il cui sodalizio con Tsukamoto risale agli esordi del regista. Il suo ruolo è sempre fondamentale all’interno dei film di Tsukamoto; i suoi brani industrial scandiscono perfettamente il ritmo della regia aggressiva, facendo vibrare l’immagine di potenza, funzione che è evidente anche in Zan, film che non può fare a meno del suo ritmo. Molto curate sono poi la fotografia e la scenografia: il film contiene alcune tra le riprese in esterni più belle mai realizzate dal regista. Ultimo ma non per importanza è quindi il montaggio, veloce e serrato come nei migliori film di Tsukamoto: Zan è un film che mette in primo piano la drammatica intensità dell’atto omicida, ma anche la sua freddezza, caratteristica che il perfetto assassino/ronin deve possedere. La lezione per guerrieri che vediamo rappresentata nel film è dunque tanto di rapidità ed efficienza, quanto di sospensione dell’emotività.
Visivamente il film comunica tutti questi elementi, inserendoli in un contesto insolito per il regista. La location in questo caso è naturalistica e la fotografia pulita e altamente suggestiva (siamo lontani dal claustrofobico conglomerato metropolitano dei film più celebri di Tsukamoto), eppure si possono sempre trovare alcune similarità con opere precedenti. Su tutti sembra spiccare il tema dello spazio lasciato alla volontà dell’individuo in una società complessa come quella giapponese; la catarsi richiede sacrificio e in Tsukamoto, uno sforzo strettamente fisico, come accade al protagonista del suo cult Tokyo Fist e come si nota anche in Zan. In quest’ultimo, il protagonista affronta varie tappe che lo conducono infine a prendere l’iniziativa, superando così la fase dell’inibizione: il punto di arrivo catartico, segno di avvenuta maturazione, è qui proprio l’omicidio. Ad essere messo in scena in Zan è dunque una sorta di racconto di formazione del perfetto ronin, in cui protagonista è la carne tesa del guerriero sottoposta a sudore e sanguinamento (ancora una volta emerge la vicinanza con Tokyo Fist e con quei duelli sanguinosi tra pugili che sembrano demoni). Del resto quello di Tsukamoto è sempre stato un cinema fortemente corporale e viscerale, a partire dagli esordi sperimentali di Tetsuo, il mutante di ferro; con Zan Tsukamoto torna quindi ad un cinema energetico, crudo ed immediato, in cui le inquadrature che sembrano vibrare di elettricità e le lame delle katane, sono saette di acciaio che aggrediscono lo schermo.