venerdì, Novembre 22, 2024

Zhang Yang, la ri-messa in scena del vissuto in Paths of the soul: l’intervista

Tra i registi della sua generazione come Jia Zhang-ke, Wang Xiaoshuai e Lou Ye, Zhang Yang ha affrontato questioni che riguardano la Cina contemporanea con un linguaggio cinematografico più tradizionale, spesso combinando gli elementi popolari del melò con la relazione traumatica tra modernità e tradizione.

Ma se la cornice di alcuni suoi film ha in molti casi mantenuto una fruibilità necessaria per raggiungere un pubblico più vasto a dispetto della sperimentazione, il contrasto tra l’immagine di una Cina rurale che si ritrae per lasciar spazio ai guasti di un capitalismo sfrenato ha in qualche modo creato una diffrazione disturbante all’interno dei presupposti semantici del suo stesso cinema.

Quitting, presentato nel 2001 alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia è in questo senso un film centrale nella sua filmografia che rivela la sovrapposizione di cui parlavamo relativamente alle opere più accessibili, mettendo in abisso melodramma e documento, costruzione drammaturgica e svelamento dei confini stessi del set. Nel dramma famigliare dell’attore Jia Hongsheng la vicinanza con la sua dipendenza dalla droga delinea un confine labile tra finzione e documentario in un esperimento radicale che smonta, letteralmente, la messa in scena minandola dall’interno.

Paths of the soul, pur ricollegandosi ad altri film “on the road” del cineasta Cinese è molto più vicino a Quitting che non al precedente Full Circle per l’adesione estrema dell’esperienza cinematografica a quella della vita. Nella conversazione che abbiamo avuto con Zhang Yang qualche giorno fa via Skype, è lui stesso a dirci che il suo film non è un documentario ma che allo stesso tempo, allineandosi ad un’esperienza estrema con tutte le difficoltà materiali di un viaggio di ricerca tra interiorità e materialità degli eventi naturali, plasma e trasforma nel suo farsi lo sviluppo creativo di un film realizzato senza il supporto di una sceneggiatura; a conferma di una linea di confine inesistente tra finzione e documento, continuamente riconfigurabile e ribaltabile grazie a quella ri-messa in scena del vissuto, di cui parliamo spesso da queste parti.

Per la recensione di Paths of the soul rimandiamo a questo link.
Un ringraziamento speciale alle gentilissime Liang Ying e Ziyi per il supporto in lingua inglese durante l’intervista.

Qual’è l’origine di Paths of the soul, e cosa l’ha spinto a realizzare un film su una forma di pellegrinaggio così estrema?

Ho avuto l’idea di fare il film 10 anni fa, ero abituato a viaggiare molto verso il Tibet e tutte le volte che andavo da quelle parti era facile incontrare i pellegrini sulla strada. Lo spunto nasce da questi incontri, con l’idea che un giorno avrei realizzato un film

Il film si serve di attori non professionisti, come sono state svolte le ricerche per il casting?

Per trovare gli attori non professionisti che sono nel film ho viaggiato per le location dove abbiamo girato per svariati mesi e soprattutto intorno alla contea del Mangkang che è al confine con il Tibet dove vive la comunità che si vede nel film, quindi non si tratta di veri e propri nativi del Tibet. Per le mie ricerche e per il film quello che mi interessava era il concetto di gruppo sociale, e questa comunità era costituita da una varietà di elementi che cercavo: un uomo anziano, una donna incinta, una famiglia, un macellaio

La durata del viaggio è stata filmata nel tempo reale del pellegrinaggio fino a Lhasa? Mi interessava sapere fino a che punto l’esperienza della troupe si è assimilata a quella dei pellegrini…

Il film non è esattamente un documentario nel senso stretto del termine, anche per questo il viaggio della troupe non si è allineato a quello dei pellegrini dall’inizio alla fine, limitandosi a seguire gli attori in alcune fasi del pellegrinaggio. Quindi pur non avendo realizzato tutto il percorso, gli attori interpretano se stessi e il pellegrinaggio è del tutto vero. Il viaggio dalla contea del Mangkang fino a Lhasa occuperebbe 7 mesi di tempo, per la lavorazione del film sono invece stati impiegati tre mesi per filmare il villaggio e quattro per i 1200 km di viaggio fino a Lhasa più un mese per filmare il viaggio da Lhasa fino alla montagna

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In un viaggio così lungo che tipo di difficoltà avete incontrato? Mi riferisco anche agli eventi naturali che si vedono nel film e a come questi eventi possono aver influito sulla struttura delle scene, tra preparazione e improvvisazione…

La prima cosa che mi preme dire è che non ci siamo serviti di alcuna sceneggiatura durante le riprese, ma quando eravamo sulla strada abbiamo cercato di osservare quotidianamente la prassi del pellegrinaggio, di comprenderne il processo e infine di catturarne l’essenza durante le fasi di lavorazione, quindi in un certo senso non sapevamo quello che avremmo girato. In questo senso si è trattato principalmente di improvvisazione, ma allo stesso tempo alcuni incidenti durante la lavorazione hanno cambiato le cose e hanno dato forma al film. Per esempio durante le riprese tutta la troupe ha assistito alla morte di un ciclista che viaggiando sul ciglio della montagna è caduto. Inizialmente avevamo pensato di inserire l’evento nel film ma alla fine non compare nel montaggio definitivo. Per altre situazioni, come per esempio le discussioni su come gestire il trattore che trascina le provviste, ci siamo ispirati a quello che vedevamo accadere durante il pellegrinaggio, per poi trasformare gli eventi e includerli nel girato.

A proposito del trattore, l’incidente che lo rende inutilizzabile è vero? E oltre a questo, l’incontro con il contadino che ospita il gruppo nel suo campo è un vero incontro?

L’incidente del trattore è stato in qualche modo combinato. Durante il viaggio abbiamo incontrato un altro gruppo di pellegrini che hanno realmente avuto un incidente con un trattore simile e abbiamo preso l’ispirazione da quell’evento per inserirlo nel film. Per quanto riguarda invece il vecchio contadino che offre ospitalità al gruppo di pellegrini in quel caso è stato un incontro combinato sulla base di un’idea, quella di mettere in relazione la primavera e il periodo della semina nei campi con il gruppo che compie un pelleginaggio per questo abbiamo coinvolto un contadino disposto ad accoglierli e ospitarli.

La luce utilizzata durante le riprese è interamente naturale?

L’illuminazione è stata concepita quasi interamente in modo naturale, tranne per quanto riguarda le scene notturne dove abbiamo utilizzato fonti artificiali ma sempre in linea con quelle utilizzate normalmente dai pellegrini

Più in generale, le dimensioni della troupe erano più o meno contenute in relazione alla difficoltà del viaggio?

Ci siamo serviti di una piccola troupe di circa 26 persone, riducendo tutte le maestranze come per esempio quelle dedicate al trucco o ai costumi che non erano con noi e limitandoci dal punto di vista tecnico a due operatori, il direttore della fotografia e il produttore. Oltre a questo un piccolo camion che ha assolto le funzioni di un alloggio insieme alle tende che si vedono nel film e dentro le quali abbiamo vissuto durante la lavorazione condividendo lo stesso spazio dei pellegrini, perché ovviamente in tutto il percorso fino a Lhasa non ci sono ostelli, hotel e alloggi di alcun tipo.

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La relazione tra paesaggio e personaggi è un elemento fondamentale del suo cinema. Sembra che Paths of the soul sia una versione radicale di altri suoi film come Getting Home e Full Circle

È vero quello che dice, nel senso che ho sempre amato le storie che mettono in relazione le persone con la strada. In questo senso Paths of the soul ha certamente dei punti di contatto con Getting Home e Full Circle. Ma in questo caso ho voluto lavorare in modo totalmente nuovo, come dicevo prima, senza una sceneggiatura di supporto.

Nel percorso dei pellegrini c’è spazio per le nuove generazioni del Tibet oppure ci sono delle differenze tra questa scelta ed altre legate al contatto con la modernità?

Le differenze sono percepibili tra diversi gruppi di pellegrini, per come li ho incontrati prima di fare il film e durante la lavorazione dello stesso. Per esempio ce ne sono alcuni con quattro o cinque bambini al seguito oppure altri costituiti da una famiglia di dieci persone e altri ancora di venti elementi come combinazione di più famiglie che si avviano insieme sulla strada del pellegrinaggio. Ma non è certo una questione generazionale, perché coinvolge tutto l’arco della vita, in questo senso è del tutto normale per il Tibet il pellegrinaggio come pratica che coinvolge persone anziane e bambini.

Quanto della pittura tradizionale cinese del paesaggio è presente nel suo film?

Non ho immaginato una relazione tra pittura tradizionale del paesaggio e gli scenari che si vedono nel film, proprio perché per allinearmi al punto di vista dei pellegrini ho cercato di essere il più possibile soggettivo per quanto riguarda la percezione dell’orizzonte naturale. Il panorama filmato è quindi osservato mantenendo una distanza precisa, quella che mi ha consentito di elaborare un punto di vista soggettivo.

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Cosa è cambiato per lei dopo questa esperienza?

Per i pellegrini non si è trattato semplicemente di girare un film, ma del compimento di un percorso di ricerca interiore. Per quanto mi riguarda, dopo il film mi sono avvicinato alla parte più intima di me stesso

Il viaggio dei pellegrini verso la montagna ci mostra un mondo totalmente distante da quello immaginato dal capitalismo globale. La visione del Tibet, in termini anche solo strettamente percettivi, crea un contrasto con le megalopoli cinesi contemporanee. Allo stesso tempo questo contrasto si percepisce nel suo film ad un livello diverso, quello tra dimensione spirituale e durezza indifferente della natura. Tra fede e materia dov’è lo sguardo di Zhang Yang?

Al momento l’enorme e veloce sviluppo della Cina sta rallentando e decadendo con altrettanta velocità e questo pone un altro problema centrale per quanto riguarda la Cina contemporanea, quello legato alla confusione morale e all’assenza di valori di riferimento. La mancanza della fede nella Cina di oggi lascia spazio solamente al denaro. Prima di girare non avevo nessun tipo di fede religiosa. Dopo il film ho imparato a conoscere me stesso in modo più approfondito e quello che spero, quando si guarda Paths of the soul, è di provocare una riflessione sulla propria vita semplicemente mettendola in relazione con quella dei pellegrini che hanno trovato la fede dentro se stessi.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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