L’inizio per Paul Weitz è nel 1998 come sceneggiatore insieme al fratello Chris (Twilight, e Twilight: new moon) per Antz, il film d’animazione prodotto dalla Dreamworks e diretto da Eric Darnell & Tim Johnson. Il debutto nella regia è dell’anno successivo con American Pie, la pellicola di maggior successo di Weitz, destinato da quel momento in poi a inanellare una serie di commedie tanto folgoranti quanto sottovalutate; basti pensare al passaggio silenzioso delle sue ultime due regie, in Good Company e American Dreamz, film che Weitz stesso in una serie di interviste definisce come attraversati da un dis-equilibrio Wilderiano, ovvero da quella strana relazione tra cinismo e ottimismo che incendiava le migliori produzioni del grande maestro Americano.
E i riferimenti, nel cinema di Paul Weitz seguono quella linea endogena che dalla commedia Americana Classica (Hawks, Sturges, Wilder) arriva sino agli anni ’80 passando per Jerry Lewis, Blake Edwards, Buck Henry, Robert Benton. C’è in effetti, nel suo cinema, una quadratura e un equlibrio che tiene a bada la distorsione dell’universo popolare e politico Americano dal debordare nel demenziale puro, un’attenzione alla superficie del set davvero classica se si vuole, ma anche assolutamente anarchica e rara nel cinema statunitense dell’ultimo decennio, totalmente slegato da quel vitale rovesciamento di segni che ancora sopravviveva nel cinema di Demme o di Kasdan.
Ingestione e digestione “impalpabile” di più di cinquant’anni di Cinema che arricchisce anche questo nuovo Cirque du Freak: The Vampire’s Assistant, ispirato alla saga infinita dello scrittore Irlandese Darren O’Shaughnessy e scritto per lo schermo da Weitz stesso insieme a Brian Helgeland (L.a. Confidential, Blood Work, Mystic River). Distribuito in Italia in pochissime sale e in programmazione condivisa con altri titoli, l’ultimo film di Weitz pagherà (e sta già pagando per disattenzione critica) l’innesto alieno di una superficie pubblicitaria vicina alle produzioni del fratello nel corpo di una commedia di classica crudeltà; un’operazione difficile e se si vuole lontanavicina dal (supposto) target di riferimento.
Se American Dreamz, con la ferocia devastante di un “new hollywood party”, riusciva a sferrare con apparente leggerezza i colpi di un cinema politico senza filtri, mirabilmente costruito sull’immagine e sui segni, avvicinando l’opera di Weitz ad una versione solo apparentemente più moderata del cinema di Joe Dante, Cirque Du Freak mette insieme con la stessa sfrontatezza un racconto di formazione che si serve dell’involucro Gotico da adolescenti per mostrare un inquietante percorso di disillusione dai toni scorretti e disfunzionali. Il bellissimo incipit con un deformato Michael Cerveris che si abbuffa di pop corn al cimitero non è semplicemente nel segno dello sberleffo, ma mostra chiaramente come il cinema di Weitz sia ricchissimo di rotture dell’orizzonte visivo, cosi pregno di cinema dello sguardo dimostra una capacità sorprendente di affidarsi alla scrittura, territorio solido e minato allo stesso tempo.
Non può sfuggire la rilettura irriverente della nota falsa soggettiva di Sunset Boulevard, ancora una volta l’amato Billy Wilder che fa da mentore, qui con il trucco di una voce narrante che sembra appartenere a Steve (Josh Hutcherson) e che invece è già dentro una bara; con il consueto rigore nel dipingere i personaggi minori, il set di Weitz sembra allargare la profondità di campo in modo irresistibilmente comico.
In American Dreamz era la proliferazione degli schermi, un mondo di simulacri che raccontava la compenetrazione tra realtà e reality nel modo migliore in cui il cinema Americano sa(peva) fare, abbandonando il pamphlet e abbandonandosi ad una sarabanda visiva sottoposta a continuo e perverso rovesciamento; in Cirque du freak è lo spazio del cinema gotico e una galleria di personaggi fantastici che permette a Weitz di ricombinare i giochi di un laido paese dei balocchi, invaso da stimoli sessuali camuffati nei corpi mutanti dei freak, attraversato da pulsioni necrofile e segnato da un’inversione di quello scontro generazionale che costituiva l’ossatura di in good company, con gli adulti che seppelliscono i propri figli, una gerontocrazia di vampiri che è diversa da quella terribile di Martyrs solo per influenze e cultura dell’occhio, capace di colpire duramente nella descrizione di un mondo alla rovescia che sembra l’immagine allo specchio dei due Twilight, cosi dentro le dinamiche adolescenziali quest’ultimi, cosi brutalmente fuori da quell’illusione il Circo di Paul nell’impietoso ritratto di un mondo senza futuro attraversato dalla morte.
E in quell’equilibrio che si diceva cinico e ottimista, questo sembra il film più disilluso e doloroso di Paul Weitz, il più (dis)funzionalmente comico e quello più oscuro, quello maggiormente elaborato a partire dal cuore della famiglia Americana, dove alla fine la visione del paese dove Weitz vive non è troppo diversa dal limite che separa il Villaggio di M. Night Shyamalan dall’esterno del mondo conosciuto. Come sempre nel cinema di Weitz, anche Cirque du Freak è trainato da una colonna sonora perfetta, tutta giocata su consonanze e dissonanze, come capitava in molti film degli anni ’80; quando John C. Reilly è sopra la bara di Dan in una sequenza bellissima che mostra l’abilità di Weitz nell’usare il set in modo visionario facendo comunicare più piani dello sguardo, la voce di Nick Cave scandisce la sua idea non riconciliata di vita oltre la morte:
“You’re one microscopic cog
in his catastrophic plan
Designed and directed by
his red right hand“