(il Pellicano) Quando ha generato i piccoli non appena sono un po’ cresciuti, colpiscono il volto dei genitori; i genitori allora li picchiano e li uccidono. In seguito però ne provano compassione, e per tre giorni piangono i figli che hanno ucciso. Il terzo giorno, la madre si percuote il fianco e il suo sangue, effondendosi sui corpi morti dei piccoli, li risuscita
Physiologus
Il primo film di Yong-ju Lee è uno tra i debutti più interessanti del 2009 in Corea; distribuito internazionalmente con i titoli di Possessed e Living Death, letteralmente dal Coreano ha un significato ben diverso che potremmo tradurre con “non fidarti dell’inferno”. Yong-ju Lee disassembla il corpo già ibrido del K-Horror con una forza visionaria che per certi versi lo avvicina al mondo simbolico di Ji-woon Kim e a quello causale di Chang-dong Lee con il quale condivide un utilizzo estremo dello spazio, morfologia sfuggente che muta insieme ad un punto di vista mai centrale. Possessed è un film sulla visione della fede, e se sembra appartenere ad una linea molto precisa che attraversa il cinema coreano, da Kim Ki Duk, passando per Park Chan Wook fino al già citato Chang-dong Lee, sposta al contrario l’interesse su un territorio molto più ambiguo capace di sostituire progressivamente una prospettiva antropologica con una rilettura complessa dei simboli evangelici; tra visione e cecità, il tessuto multireligioso della Corea Contemporanea attraversato dal film è molto più vicino alla complessità filosofica del Cold Heaven Roeghiano che non al cinema più prossimo a Yong-ju Lee. Se l’equilibrio tra simbolismo e visione sembra a tratti perdere controllo, è proprio la caratteristica multiforme dei segni a disinnescare tutte le retoriche di un genere a favore di una rappresentazione che si manifesta in quella linea di confine che separa la vita dalla morte; basta pensare al continuo rovesciamento di prospettiva che rilancia l’idea di fede ogni volta, delirio fanatico oppure capacità di vedere oltre, atto del vedere come sacrificio indissolubilmente legato all’accecamento di una prospettiva mondana; perchè in fondo, per chi crede, “la morte non è niente”. L’innesco brutale del dispositivo a sorpresa mostra quasi sempre il suo rovescio, ovvero uno sguardo che proviene da un altrove e che ne invalida la superfice, il senso più esplicito, la genericità del meccanismo horror, aprendosi al contrario ad una visione multipla e posseduta; Yong-ju Lee costringe i segni a collidere con una gelida drammaturgia dello spazio, di cui dimostra un controllo esemplare per capacità organizzative e una tenuta che procede per accumuli e per improvvisa sottrazione. La doppia apparizione del Pellicano, oltre a sollecitare la tradizione complessa di una simbologia, fuga ogni dubbio sui pericoli di un cinema semplicemente o banalmente delirante, a favore di una perturbante metafora sulla visione. Da tenere d’occhio.