Come l’erba canina che lentamente spacca in due le pietre di un cimitero, quella selvaggia dell’ultimo Resnais è la progressiva sedimentazione di una memoria plurale nell’apparente ieraticità degli spazi; una traccia deturnante e deturpante che potrebbe condurre alcuni spettatori Italiani, distratti dal titolo della “nostra” edizione di Les Herbes Folles, in un continuo fuori-luogo; una speranza più che un autentico rischio, un’aspettativa tradita che si tradurrebbe in una forma esperenziale di assoluta libertà; non mi stupirei, a dispetto del critico a caccia di filologie “resistenti” e impermeabili, se si trattasse di un motto di spirito, una decisione beffarda concordata con lo stesso regista Francese. Oltre la reinvenzione continua di un Resnais che si fa riconoscere mai uguale a se stesso, nelle false partenze e nel riavvitarsi iperbolico di un riflesso di vita, c’è quel sentirsi persi nel reale come buco nero, lo stesso che apre il film del maestro Francese, una dimensione verticale nient’affatto ermetica come si potrebbe pensare, al contrario elastica e indefinita, continuamente aperta all’invasione del passato e alla collisione con il futuro, morfologia di uno spazio mondano minato dalla discontinuità. Se volessimo per forza applicare la geografia immaginaria di una “continuità” cinematografica, i movimenti dell’ultimo Resnais avrebbero la consistenza dei carrelli Ophülsiani, la permeabilità dei palindromi Rivettiani in Céline et Julie vont en bateau, il volto sfrangiato delle relazioni nell’Inland Empire Lynchiano, il viaggio di Mrs Muir tra i mondi (la Marguerite Resnaisiana porta il suo cognome), la perdita progressiva di un orizzonte ne La Rupture di Chabrol, i doppi sogni Buñueliani o anche Schnitzleriani, la concretezza terribile degli oggetti nel cinema Bressoniano. Una geografia immaginaria, come si diceva, il reperto mnemonico o l’oggettificazione di un ritorno ossessivo che ha il volto incrinato di una familiare estraneità. Eppure, ne Les Herbes Folles, si ha la sensazione di riconoscersi persi nel presente, è anche il frutto di una sperimentazione sul testo che Resnais esercita con una ferocia sempre più vitale e positivamente oltre lo scacco matto della Cinefilia; un quasi novantenne che guarda la vita con occhi illuminati mentre una generazione di trentenni si fa accecare dall’illusione del Cinema. Nell’Angoscia di non lasciar sfuggire nulla di quel che si intravede appena, di quel che forse ancora non si vede e sarà possibile vedere soltanto più tardi Resnais sembra andare persino oltre i giochi combinatori di On connaît la chanson e Smoking/No Smoking; partendo dalla perversa leggerezza di Coeurs, intreccia il tessuto di un racconto che gioca con l’eresia del nostro raccontarsi e rovescia l’aberrazione temporale di una Soap facendo penetrare una forma “Nera” e inquietante, l’astrazione di un mondo Hitchkockiano che si arresta alla denotazione di un Mcguffin destinato a perdersi in mille direzioni; l’immagine è sempre un’esca per qualcos’altro. Mark Snow sostituisce la forma novecentesca del comporre di Henze (L’amour a Mort) in un prisma sonoro molto più vicino al caos contemporaneo che non alla citazione di un reale “cubista”; ci dispiace per chi ha bisogno di un appiglio semantico che non va oltre i filtri imposti dalle bibliografie universitarie, vere e proprie malleverie della mente; Snow non mette in ostaggio la sua creatività e passa violentemente dal sinfonismo sintetico dei Tv Drama, ad un free Jazz lontano, fino a spazzar via tutto quanto nella forma minacciosa di un drone; strappare ai modelli la prova che esistono con le loro bizzarrie e i loro enigmi. Per chi scrive Resnais immagina l’unico Cinema ancora possibile.