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Jia Nian Hua (Angels Wear White) di Vivian Qu – #venezia74 – Concorso: recensione

Vivian Qu, produttrice per i film di Yi’nan Diao, incluso l’ultimo Black Coal Thin Ice, ci aveva sorpreso moltissimo con il suo debutto dietro la macchina da presa, presentato a Venezia 70 per la 28/ma edizione della Settimana Della Critica. Trap Street era un film capace di raccontare la pervasività delle nuove tecnologie attraverso un racconto intimo e relazionale.
Quella dimensione è ancora presente nel nuovo Angels Wear White, ma in forma ancora più sottile, come se le sollecitazioni teoriche del precedente lavoro venissero indagate a partire dalle dinamiche sociali che innervano la coscienza di un paese, intrappolato nel meccanismo inesorabile della sorveglianza, a partire dall’intero sistema formativo che dovrebbe rappresentarne le basi fondative.

In una piccola città di mare, due bambine vengono assalite da un uomo di mezza età all’interno di un motel. L’unica testimone è Mia, un’adolescente che per una notte sostituisce l’amica nel ruolo di receptionist. Attraverso le videocamere di sorveglianza, la giovane ragazza riprende con lo smartphone quello che accade fuori dalla stanza.
Vivian Qu non si spinge oltre quelle immagini allo specchio e rintraccia le origini dell’abuso in un contesto molto più ampio che precede e in un certo senso informa quegli stessi fatti. Le responsabilità di un alto funzionario della scuola pubblica, oltre il sistema omertoso che lo protegge, vengono mostrate nel cuore stesso della scuola, attraverso le attitudini degli studenti, nei piccoli grandi abusi perpetrati con i dispositivi digitali che sostituiscono la pesantezza del gesto, ma non l’assunzione di responsabilità e le gravi conseguenze connesse.
Wen, una delle due bambine, è costretta ad una terribile assuefazione alla violenza, anche nel contesto familiare, dove le visite ginecologiche per verificare la realtà dello stupro, disintegrano la sua identità nel confronto prioritario con la vergogna. La stessa funzione dell’avvocato Mrs. Hao (Shi Ke) sembra collocata su un pericoloso crinale; da una parte protegge Mia dall’ambiguità morale della legge cercando di condurre le indagini senza l’influenza delle istituzioni, dall’altra costringe la giovane ragazza ad un’agnizione troppo dura e brutale per le sue condizioni di clandestinità.
Sia Wen che Mia si trovano schiacciate tra istituzioni e famiglia, non importa se assenti o presenti, perché in entrambi i casi Vivian Qu ne identifica le deviazioni, proprio nel luogo in cui il patto sociale prende forma.

La tecnologia non è cornice per la comprensione della realtà, ma arma per ferire o scudo per proteggersi dalla coazione a ripetere di un sistema votato inesorabilmente all’esercizio dell’abuso. 
Vivian Qu dimostra una profonda conoscenza del rapporto tra dispositivo e abitudini sociali, anche nella registrazione istantanea del gesto, tanto da non risultare mai didascalica quando introduce un rapporto controverso come quello tra sguardo, istinto e periferica.

Rispetto alla mediazione gelida dei dispositivi di comunicazione, la gigantesca statua di Marilyn Monroe collocata sulla passeggiata principale di Hainan, rappresenta per Mia una grande madre sotto la quale trovare protezione; un simulacro che ancora apre le porte alla percezione della meraviglia e che allo stesso tempo registra la sovrapposizione tra una Cina senza alcun contatto con la tradizione e le sedimentazioni di un mercato globale destinato a seminare relitti.
Il rischio che l’autrice cinese si perda tra le lusinghe di un facile lirismo è costantemente scongiurato da questo contrasto, vicino per certi versi alla riflessione sul tempo, attraverso la deperibilità degli oggetti di consumo, nel cinema del grande Jia Zhang-ke. La fuga di Mia vestita e preparata per un incontro mercenario combinato dai suoi nuovi sfruttatori, poco più che coetanei, ha il propellente conservativo della sopravvivenza e l’osservazione di un orizzonte possibile. La grande Marylin smantellata assume una valenza quasi sacrale, ma allo stesso tempo azzera la dimensione poetica al livello di una fenomenologia dello sguardo che osserva gli innesti e le aporie del tempo nella loro cruda manifestazione.
La fotografia del belga Benoit Dervaux punta proprio in questo senso alla definizione di una luce diurna che ha i confini lucidi di una realtà minacciosa esposta in pieno sole, in una sorta di rovesciamento della significazione onirica.

La stessa posizione delle donne nella società Cinese viene osservata da Vivian Qu lasciando fuori la descrizione fattuale e la cronaca puntuale della violenza, via che sarebbe stata sin troppo superficiale per una cineasta così acuminata.
Mia stessa incarna il dubbio e impara il gesto dell’occultamento da una società la cui attitudine risiede nell’applicazione sistematica della menzogna e della manipolazione. La prova che inchioderebbe il responsabile di uno stupro diventa nelle sua mani il diaframma di protezione per sopravvivere ad una vita di soprusi.
Ma non è la prova provata, il reperto, la collocazione esatta del file che può ristabilire i confini di uno stato di diritto, sembra suggerirci Vivian Qu vanificando qualsiasi speranza anche quando la verità sembra a portata di mano.
L’unica possibilità è nella fuga da “questo” reale.

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