Nell’isolazionismo totale dei dispositivi VR sono fortissimi il senso di claustrofobia e la sensazione di essere già visti come i pesci di un acquario. Manca l’esperienza aptica della sala tradizionale che non è mai stata solo una questione dell’occhio.
Manca la distrazione, il sonno improvviso, il respiro della persona amata, il corpo del vicino.
L’occhio è a 360 gradi ma è irrimediabilmente cieco, stimolato solo da un altro da se e dalle sue facoltà aumentate; Paul Virilio sarebbe d’accordo sulle caratteristiche più mentali che sensoriali dell’esperienza VR.
Tsai Ming Liang sfrutta tutti i vantaggi della tecnologia Jaunt, filmando a 360 gradi il suo primo esperimento VR, partendo da stanze che già conosciamo, divorate dal tempo e dagli agenti naturali.
L’atemporalità di Jiaoyou sembrava toccare un limite estremo oltre cui era impossibile andare. Il cinema di Tsai Ming Liang ancora di più era immagine della coesistenza, ecco perchè l’approdo al VR, oltre che naturale, ci ha consentito di vincere quella cecità di cui parlavamo grazie ad un’esperienza contemplativa di rara bellezza.
Hsiao-Kang (Kang-sheng Lee) vive in una casa semi abbandonata immersa nella natura. Mentre la madre sembra prendersene cura con la preparazione del cibo, l’uomo rimane seduto sul divano del soggiorno sottoponendosi a dei piccoli e costanti stimoli elettrici grazie ad un dispositivo che controlla autonomamente e che infligge i leggeri shock.
Tsai Ming Liang punta alla ripetibilità e alla persistenza dell’azione nel tempo e introduce un elemento tra archeologia tecnologica e fantasia, come lo strano solarium di Stray Dogs.
Entro questi spazi e da altre aperture, tra natura e cemento corroso, una presenza fantasmatica femminile vestita di bianco, intrappolata in una temporalità parallela, assume spesso la posizione dell’osservatore muto. Un pesce allieta le ore di Hsiao-Kang, compagno di giochi e in una trasformazione onirica, causa di estasi erotica.
Nell’ambiente VR l’immagine tempo di Tsai Ming Liang non perde forza, ma aggiunge due elementi fondamentali. Il primo riguarda lo slittamento del punto di vista: la posizione dell’osservatore cambia all’interno di una stessa stanza, non solo in termini esplorativi, ma anche dialettici. Torniamo più volte negli stessi luoghi, ma cambia l’angolatura e la posizione, con una forte prossimità a quelle che in un contesto tradizionale avremmo chiamato false soggettive.
In questo senso, la visione a 360 gradi cambia anche all’interno di un ambiente già esplorato in precedenza, perché quello che interessa al regista Taiwanese è il microcosmo degli oggetti, la decomposizione degli ambienti, la muffa sui muri, la natura che infesta il cemento, una falena intrappolata tra la luce e il soffitto.
L’occhio virtuale si trova allora in cima ad una staccionata, dentro la vasca da bagno dove Hsiao-Kang gioca con l’amato pesce, in mezzo alla cucina allagata dalle pioggie pluviali, dentro stanze popolate da fantasmi.
Il tempo esplorativo diventa quindi un’occasione entro il tempo dell’immagine e quello del montaggio esterno alla stessa, basta pensare alla donna vestita di bianco che da una finestra sfondata, osserva la madre di Hsiao-Kang che percorre la strada al di là della staccionata rossa. Se esploriamo tutto con il movimento rotatorio della sedia che ci ospita, rintracciamo tutti gli elementi con un’azione che sostituisce la necessità del controcampo, lasciandoci tutto il tempo per una scelta contemplativa.
Ogni porzione della “cupola” visiva a 360 gradi contiene una propria scansione temporale all’interno di un solo ambiente: gli oggetti lasciati sul tavolo, la pentola appena utilizzata dalla madre, l’acqua che pentra lentamente in casa, la vasca da bagno, i frammenti della campagna che emergono quasi sempre da una fessura, da un muro distrutto.
In questa reverie fantastica legata al ricordo della persona amata o di un’idea d’amore, i luogi che hanno accolto Tsai Ming Liang e Kang-sheng Lee nel film intervista “Afternoon”, ci includono come interlocutori in quella stessa dimensione intima, oltre la barriera dello schermo, quel diaframma che non consentiva ai personaggi di Stray Dogs di superare la corruzione del tempo, materializzata nelle sedimentazioni che occupavano le pareti.
Il secondo aspetto sul quale Tsai Ming Liang sembra aver lavorato con maniacale attenzione è quello della registrazione sonora binaurale. Quasi inglobando una delle ultime tendenze del Web, come quella che sfrutta i dispositivi di ripresa audio per le tecniche di rilassamento “Autonomous sensory meridian response”.
Il suono consente a Tsai Ming Liang di sfuggire dalla calotta della visione a 360 gradi, certamente open wide, ma irrimediabilmente chiusa. L’illusione che adesso tutto si possa vedere e che si possa spostare lo sguardo dentro l’immagine, in mano ad un tecnico invece che ad un artista sensibile, rischia di eliminare la forza centrifuga e centripeta del fuori campo, che sia creativa o positivamente distruttiva.
Questo rimane ancora un elemento fondamentale nel cinema del regista Taiwanese, prima di tutto per la presenza di finestre aperte sull’orizzonte o di una breccia nella parete che consente sempre di guardare oltre la visione totalizzante dell’ambiente VR.
In secondo luogo per il modo in cui il suono binaurale, sollecitando non solo l’orecchio ma anche la corteccia cerebrale e altri sensi stimolati dall’ascolto, riesce ad accendere quello che ancora non vediamo o ciò che non vedremo mai.
Quando sogno, desiderio e la sconnessione con il tempo dei sentimenti diventeranno insopportabili, la voce di Rebecca Pan ci placherà come un balsamo cantandoci “gli occhi della passione” e il testo che si materializza sullo schermo nell’edizione internazionale, lo abbiamo già afferrato ancor prima di comprenderlo.