giovedì, Novembre 21, 2024

La donna scimmia di Marco Ferreri #Venezia74 – Venezia Classici: recensione

Tra i classici restaurati presenti a Venezia 74, anche "La Donna Scimmia" di Marco Ferreri. L'approfondimento

Marco Ferreri è stato uno dei grandi ma sottostimati maestri del cinema italiano: un autore che si è scelto di dimenticare, non tanto per questioni ideologiche, quanto puramente rappresentative e “tonali”. Quello preferito dal regista milanese è infatti il tono grottesco, che diventa presto genere all’interno di una lucida poetica registica, quel gusto che unisce la satira a immagini ripudianti, fastidiose proprio perché materiali, prive di filtri e dunque spoglie nella loro essenza organica; («Voglio fare un film fisiologico!» fu lo sfogo autoriale che anticipò La grande abbuffata.
Un cineasta che, in fondo, al di là del corpo non è mai veramente andato, ma che col tempo ha evoluto la propria prospettiva. Ha voluto dedicare quasi ossessivamente la sua intera carriera all’illustrazione di una società, diciamo pure italiana e nello specifico borghese, che nei suoi film non brilla in nessuna delle sue tante sfaccettature. E proprio contro la viziata borghesia, già prima vittima del becero capitalismo, si scaglia uno dei film forse meno considerati di Ferreri, precedente la fase più matura della sua carriera: La donna scimmia.

Ugo Tognazzi, attore feticcio di Ferreri assieme a Michel Piccoli e Marcello Mastroianni (li ritroviamo tutti e tre con Philippe Noiret a tavola ne La grande abbuffata), è Antonio Focaccia, un creativo imprenditore abile nel guadagnarsi da vivere imbrogliando il prossimo. Presso la mensa di un ospizio dove tenta di raggirare gli anziani, Focaccia incontra Maria (Annie Girardot), una donna col corpo ricoperto di peli. Vedendo immediatamente in lei una potenziale fonte di guadagno, la convince a trasferirsi a casa sua, una sorta di squallido garage, promettendole di provvedere al suo sostentamento. In cambio la costringe a recitare in pubblico la parte della “donna scimmia”, rarissima creatura che Antonio finge di aver catturato nel cuore dell’Africa, vivendo un buon numero di pericolose avventure, naturalmente inventate.

Questo teatrino grottesco, allestito con rozza cura da Antonio (il tutto si svolge in un cortile con un albero nel mezzo e una gabbia per ospitare la “scimmia”), presto inizia a stancare Maria, che reclama la sua identità di donna umana. Ma si scontra con la volontà testarda di Antonio, che arriva persino a volerla prestare ad uno studioso, che desidererebbe toccarla e vederla nuda, per il bene della scienza naturalmente.
Per accontentare Maria, che reclama affetto dal suo protettore e qualche diritto in più, Antonio è costretto a sposarla, integrando così la sua creatura nella società che prima poteva guardarla con distacco. La donna cessa di essere semplice fenomeno da baraccone e diventa a tutti gli effetti complice dell’attività del marito, che continua a fingersi un intrepido esploratore. Le decisioni ora si fanno in coppia e finalmente la vita coniugale dà i suoi frutti: Maria resta incinta. Si arriva quindi al tragico finale, quello voluto da Ferreri (più ottimistico invece quello della versione francese del film), in cui i coniugi decidono di rinunciare all’aborto nonostante i rischi dovuti alla malattia di Maria. La donna scimmia muore di parto e con lei il mostruoso bambino; Antonio, inizialmente disperato, si riprende rivelando ancora una volta la propria natura di approfittatore senza scrupoli, allestendo un nuovo spettacolo con i corpi imbalsamati della pelosa moglie e di suo figlio.

«D’altra parte la società e colpevole e no. Siamo colpevoli tutti quanti. In La donna scimmia è colpevole la società e il marito. Mi sembra abbastanza chiara questa mia posizione quando nel finale Tognazzi dice: “Signori, ricomincia lo spettacolo”» ha dichiarato Ferreri, commentando il film. Lontano da intenzioni moralistiche, il regista si limita a ritrarre con un certo distacco innanzitutto una concezione della donna come oggetto: Antonio difficilmente cede all’affetto per la donna, un obiettivo che verrà raggiunto solo dopo aver provveduto al matrimonio, un rito di quell’istituzione religiosa che Ferreri non si fa scrupolo di dissacrare nei suoi film. La figura femminile, che Ferreri considera “più vitale” e più cosciente dell’uomo, è qui anche sfruttata come elemento di spettacolo, una calamita in carne e ossa per lo sguardo di curiosi e spettatori paganti, sia donne che uomini, anche se il regista concentra l’attenzione sul comportamento di questi ultimi. Che il cinema di Ferreri sia fisiologico, organico, fatto di corpi, lo dimostra il fatto che molte scene del film siano focalizzate sulla percezione sensoriale di questo fenomeno da baraccone: in un primo momento ci si accontenta dello sguardo, quindi si passa al tatto.

Ma è già considerando l’ossessiva attenzione visiva nei confronti del diverso, del bizzarro come novità da consumare senza però che vi sia integrazione, che si può leggere il film come una sorta di critica al feticcio contemporaneo dell’immagine. Ne La donna scimmia le immagini sono sempre presenti: il film si apre con Antonio nell’atto di mostrare alcune foto di una finta avventura in terre selvagge, uno dei tanti imbrogli architettati; le pareti del cortile adibito allo spettacolo di Maria sono illustrate dal “miglior pittore della città” (cioè di Napoli che è la location principale) e rappresentano il fantomatico viaggio di Antonio in Africa; infine, per tentare con disperazione di influenzare benignamente la gravidanza della moglie, Antonio le mostra una serie di idilliche foto di bambini sani.
Ferreri parte ispirandosi ad una storia vera, quella di una donna messicana di nome Julia Pastrana malata di ipertricosi, arrivando a sfruttare il fatto di cronaca come esca per analizzare la reazione della società e dei singoli individui ad un simile fenomeno “visivo”, come può essere quello di una donna ricoperta di peli. Il risultato di questa indagine per immagini è evidente e tragico: Ferreri documenta così l’anatomia decadente di una società malata, vittima di ossessioni grottesche, ridicole, che nel profondo tradiscono la vacuità morale e umana dei suoi componenti. Ecco allora che un film dedicato alla bestia, ovvero alla femmina scimmiesca, diventa un film sulla bestialità dei supposti normali componenti della società.

Il cinema di Marco Ferreri allora, già in questa precoce fase alla quale appartiene La donna scimmia, punta l’occhio della mdp verso il difetto e il vizio e così facendo l’obiettivo, rivolto allo spettatore, si trasforma in uno specchio deformante. L’immagine distorta che ci viene restituita è però tanto grottesca quanto lucidamente attuale. Ecco allora dove nasce la fama di Ferreri come autore capace di aizzare al pari di pochi altri il fastidio del borghese medio.

Michele Bellantuono
Michele Bellantuono
Veronese classe '91, laureato in Filologia moderna e studioso di cinema autodidatta, svolge da alcuni anni attività di critica cinematografica per realtà online. Ha un occhio di riguardo per il cinema di genere e dell'estremo oriente

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