venerdì, Novembre 22, 2024

Laurie Anderson – La camera Insabbiata – #Venezia74 – Venice VR: recensione

Sulle origini de “La camera insabbiata“, l’installazione che Laurie Anderson ha desunto da “The Chalkroom“, il progetto condiviso con Hsin-Chien Huang e presentato per la prima volta al MASS MoCA, avevamo già parlato a lungo con un articolo che ne spiegava la storia e anche la collocazione nella lunga relazione dell’artista americana con l’immagine “virtuale”. Alla luce dell’esperienza che abbiamo fatto tra le stanze adibite alle installazioni negli spazi di Venezia VR (Lazzaretto Vecchio), i venti minuti stabiliti per ogni esplorazione de “La Camera Insabbiata” ci hanno consentito di esplorare tutte le stanze con una certa approssimazione, consci del fatto che sia possibile perdersi nel lavoro della Anderson con un tempo e una libertà superiori a disposizione.
In termini empirici l’installazione è sistemata all’interno di una tenda-grotta riempita esternamente dai pittogrammi della Anderson che imitano il carboncino o le incisioni su pietra. All’interno uno sgabello, il visore VR e due joystick che consentono di interagire con l’ambiente.
Una volta indossato il visore è possibile visualizzare ancora i contorni dello sgabello in una commistione tra spazio virtuale e spazio reale, quindi scegliere se alzarsi o rimanere seduti. Stessa cosa per i confini perimetrali della tenda, visibili in forma sintetica e mappata elettronicamente, in modo da non spingersi troppo oltre, una volta deciso di percorrere il viaggio nelle stanze virtuali, stando in piedi.

La dimensione esplorativa è quella di una quest che combina role playing ad astrazione poetica, movimento fisico ad azione creativa, tutti aspetti che rimandano all’uso periferico, dislocato ma allo stesso tempo centrale del corpo in tutta l’arte di Laurie Anderson. In questo caso, come già scrivevamo, la Anderson ha puntato ad un concetto che alludesse proprio alla dissoluzione corporea. Sperimentando l’installazione non è possibile dire il contrario, anche se l’equilibrio tra i due stati, corporeo e incorporeo, ci è sembrato bilanciato e fortunatamente non del tutto cicatrizzato.

Ne “La camera insabbiata” non esiste una narrazione vera e propria, se non nella possibilità di costruirsela attraverso i frammenti e gli stimoli cognitivi disseminati dalla Anderson, costituiti da brandelli di poesia, racconti, suoni, tracce grafiche.

Le stanze, divise secondo una concezione sensoriale, si riferiscono alla percezione del suono, alla possibilità di volare, all’elemento acquatico, al movimento della danza, al tratto pittorico. L’accesso alle stanze è del tutto libero e può essere interrotto durante l’esplorazione stessa; in tutti i casi oltre alla contemplazione, c’è un livello partecipativo diretto che consente di scrivere, lasciare una traccia del proprio passaggio, incidere una canzone con la propria voce e materializzarla sotto forma di scultura, proprio questa sembra prender vita da un’elaborazione tridimensionale di una forma d’onda, oggetto da toccare e suonare ad libitum.

La registrazione della voce avviene con un ritardo notevole tra la percezione immediata della propria e quella riprodotta nell’ambiente virtuale, esperienza asincrona che costringe a rallentare l’esecuzione e a “sentirsi” in un modo diverso e metadiscorsivo. Sentirsi sentiti e vedersi visti nella dimensione grafica.

Ed è proprio in questa sconnessione che ci è sembrato di scorgere il cuore de “La Camera Insabbiata”, un occhio immerso dove il nostro modo di percepire i confini della realtà esperita cambia a contatto con le tracce mediali che già conosciamo attraverso le numerose e quotidiane esperienze audiovisive che aumentano o al contrario annichiliscono le nostre capacità sensoriali. Accolti nell’utero di questo ambiente solo apparentemente oscuro, come una lavagna immersiva piena di segni da interpretare e vergati con un gessetto, impariamo a distinguere la mente dal corpo. L’occhio a 360 gradi, lo sappiamo bene, è un occhio ricombinato dall’esperienza psichica; Laurie Anderson lo sa e fortunatamente non ne ha paura, nella sua ricerca del segno puro e irriducibile come quello della scrittura Zen. Buona fortuna.

 

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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