L’architetto crea e distrugge città e il suo ruolo ambivalente risiede in un punto medio tra regia ed estetica, ma in questa incertezza drogata dalle committenze che si susseguono, la funzionalità è un concetto dimenticato.
Ferri, che ha diretto uno splendido documentario sul razionalista Luigi Mattioni, osserva attraverso il movimento molecolare della grana i corpi solenni di due anziani imprigionati nell’aberrazione del tempo.
Simulacri di un dagherrotipo senza inizio ne fine, sembrano elevare un grido muto al di là di una superficie raggelata, dove l’emozione, costantemente interrotta dai gesti meccanici di Dario Bacis, riemerge altrove, proprio nello scarto temporale tra visione “mossa” e fissità del “quadro”.
Gli oggetti, figli di una forma del pensiero che lungo i decenni perde inesorabilmente la connessione con la funzione primaria, sono i segni materiali che imprigionano l’anima dei due coniugi Colombi alla cronologia delle loro vite, tra geometria e caducità.
Nascono nel 1916, senza conoscersi, nell’anno in cui Antonio Sant’Elia pubblicava il manifesto dell’architettura futurista, tra una razionale vicinanza al modernismo è deliranti derive visionarie che immaginavano spazi collettivi da riconfigurare senza sosta.
Il secolo che attraversa la coppia corre verso l’eccesso, perde di senso, accumula bruttezze esterne e racconta “l’insensatezza dei rapporti umani”.
La chiusura dei coniugi rispetto al mondo esterno è biunivoca all’apertura della città e dell’arte al ciarpame post-moderno. Gli unici oggetti durevoli che sopravvivono sono quelli funzionali, razionalmente legati all’esperienza di una vita seclusa ed essenziale.
Abbandonato Balabolka, il sintetizzatore vocale utilizzato per Cane Caro, Luca Ferri impiega per la prima volta la voce “vera” di Assila Cherfi.
Tra rigore e fragilità e sempre sul filo di una rottura fonetica, la voce narrante tradisce un’eco emozionale, la stessa che si riverbera in quell’immagine così precisa, tenera e spietata della vecchiaia: Giovanni Colombi su uno sfondo che ricorda quelli paesaggistici nelle fotografie primo novecento, canta Mascagni e Tajoli, la sua bocca aperta in una smorfia che esprime amore e allo stesso tempo il dolore di essere ancora vivi.
Ecco che nel cinema di Luca Ferri, mai come in Colombi, la prossimità con il ritratto si apre all’insondabilità dei sentimenti, dove qualsiasi piccola smorfia, ma anche il rapporto apparentemente artificiale tra sfondo e corpo, diventano un regno infinito di possibilità.