Che madre è quella di cui va cianciando Darren Aronofsky? La natura, nella metafora più scoperta della sua filmografia, ma anche la custode del tempio di Salomone, quello di Gerusalemme a base ottagonale, la cui struttura è stata in qualche modo ricercata dal regista americano nella casa vittoriana scelta per girare il suo ultimo film.
Aspetti che ci interessano moderatamente, ma che tengono in piedi un cinema votato alla sovrapposizione ingombrante tra immagine e metafora. Fino ad un certo punto, perché qualcosa sfugge e determina comunque un viaggio intensamente negativo.
Jennifer Lawrence restaura tutta la grande villa dove vive con Javier Bardem; dalle pareti alla cucina, si è presa cura di tutti gli ambienti precedentemente distrutti da un incendio. Protegge il compagno, scrittore, e la sua violenta crisi creativa. Non un parola nell’ultimo periodo, nessuna energia scaturita dalla creatività, fino a quando nel tranquillo mènage della coppia non si presenta un misterioso dottore in cerca di alloggio. La famiglia lo raggiungerà a breve e una vera e propria tragedia dell’assurdo comincerà a far precipitare gli eventi.
L’impossibilità di condurre una vita separata dal mondo, il trauma della famiglia come entità parassitaria che mina dall’interno la sopravvivenza di un nuovo nucleo, vampirizzandone progetti, intenzioni ed energie. La necessità di chiudersi in una fortezza personale, impenetrabile dall’esterno. Qualsiasi sia la visione soggettiva applicabile, da una prospettiva di tipo politico ad una più interiorizzata e intima, Aronofsky costruisce un violentissimo incubo horror chiuso nel guscio di una rigenerazione digitale dello spazio che si appresta a distruggere, segno più pregnante del suo stesso cinema.
La casa diventa il luogo predisposto per rappresentare il mondo, la famiglia, uno stato o i confini di un culto religioso. Diversamente da quello che accade in quaranta anni di cinema horror, da Craven a Raimi, da Cronenberg a Carpenter, da Maury & Bustillo fino ad altre french extremities, ma anche nelle produzioni solo apparentemente meno teoriche della Blumhouse, l’ansia arthouse di Aronofsky deve anteporre, nel decòr e nei simbolismi espliciti, un impianto allegorico legato solo in parte alla tradizione della Torah che trasforma la catabasi della Lawrence in una visione ciclica e cosmica dove c’è posto per ruminazioni creazioniste, metacinema, millenarismo ecologico e un rapporto non riconciliato tra Dio e Natura.
L’irriducibilità del diamante al cuore del mondo o della sua stessa idea, avrebbe potuto essere un nucleo potentissimo di cinema della possibilità. Non lo è, sfortunatamente, per una tendenza a spiegare le immagini con le stesse, a renderle chiare prima ancora che sfuggano e possano diventare opache.
Questa estrema stratificazione non è difficile da individuare, ma fortunatamente le sopravvive il corpo e la performance disperata di Jennifer Lawrence, attrice in fuga da un set predisposto come la parodia di un incubo Polanskiano, in grado di ribellarsi all’universo chiuso del proprio regista, preoccupato di far emergere entro i confini di una produzione apocalittica e magniloquente come un racconto biblico, i relitti di un cinema già visto e immaginato da altri.