Sulle responsabilità della Chiesa Cattolica nel genocidio ruandese non è ancora stato detto abbastanza. Soprattutto sul radicamento di alcune implicazioni connesse alla storia coloniale del secolo precedente. Rispetto alla già nutrita filmografia sull’argomento, Atiq Rahimi sposta l’attenzione verso le origini della dottrina razziale che ha incendiato gli animi delle etnie Hutu e Tutsi, per raccontare il preludio ai massacri degli anni novanta, con l’adattamento del romanzo di Scholastique Mukasonga, pubblicato nel 2012 da Gallimard.
Venti anni prima del genocidio sistematico dell’etnia Tutsi, la storia di “Notre-Dame du Nil” è il racconto semi-autobiografico della mattanza avvenuta nel liceo femminile cattolico di Kigali ai danni delle ragazze di quello stesso gruppo etnico, per mano di un gruppo di uomini Hutu armati di bastoni chiodati. Lo scrittore e regista Afghano si allinea ancora una volta al punto di vista femminile a sei anni di distanza da Syngué Sabour (Come Pietra Paziente), film tratto da uno dei suoi romanzi, allontanandosi dalla sua cultura e cercando di avvicinarne un’altra con una complessa stratificazione di segni e riferimenti.
Il primo ha la qualità materica di una voce narrante che introduce il breve prologo del film, quella di Florida Uwera, una delle ultime depositarie della canzone tradizionale ruandese, artista insieme ad altri della diaspora in Burundi durante i primi anni sessanta e strenua sostenitrice del kinyarwanda come idea stessa di lingua comune, contro le distinzioni Twa, Hutu e Tutsi introdotte dai colonizzatori. “I conquistatori in cerca dell’innocenza perduta – recita la voce di Florida, mentre il corpo di una giovane donna si immerge tra le acque di un lago incontaminato – hanno conquistato il mondo perdendo la loro“. Le due voci, quella narrante e il punto di vista della giovane, si confondono; sono gli insegnamenti della nonna a risuonare nell’ambiente naturale, attraverso un canto che connesso alla tradizione, tra presenza e perdita, deve necessariamente ricondurre alla foce matrilineare.
La leggenda e il sogno diventano connessione fondamentale per il cinema politico di Atiq Rahimi, perché consentono, in questo e in altri suoi film, di penetrare la struttura di un contesto culturale, alla ricerca di un’origine preesistente alle distinzioni sociali e di genere. La matrice confessionale di “Come pietra paziente” e lo scavo interiore del desiderio, alternativamente indirizzato alle donne e agli uomini di una società patriarcale, si allargano in “Notre-Dame du Nil” dal particolare quotidiano delle studentesse del “Lycée”, all’organizzazione sociopolitica del paese che le ospita, già irrimediabilmente plasmata dalla presenza coloniale.
È matrigna Chiesa a impostare le distinzioni culturali importate dal patriarcato belga e orientate a definire i tratti di un’aristocrazia somatica che si insinua come elemento di frattura tra i cuori delle giovani studentesse.
Rahimi osserva con attenzione tutta la dinamica devozionale attraverso la forma teatrale del rito, trovando uno dei segni nella statua della madonna nera modellata sui tratti occidentali e sulla percezione di quelli Tutsi da parte della narrazione coloniale. Elementi presenti nel romanzo della Mukasonga, anche nella combinazione complessa tra racconto della memoria e quello di iniziazione erotica dell’adolescenza. Tra tutti gli stimoli esaminati dalla scrittrice ruandese, oltre ad alcune immagini di grande forza tra cui il naso spaccato della vergine maria, Rahimi sceglie come elemento centrale la relazione tra Virginia (Amanda Santa Mugabekazi) e Monsieur de Fontenaille (Pascal Greggory), affidando al loro dialogo uno dei frammenti più visionari di tutto il film, con l’affresco egiziano della sua collezione che prende vita davanti agli occhi della ragazza, tanto da definire la suggestione percettiva e culturale di quell’esotismo perverso, sulla formazione identitaria della giovane Tutsi.
Su questa colonizzazione dell’immaginario si fonda l’invenzione leggendaria alla base di una leadership politico-religiosa, creazione collettiva di un mito prossimo alla disgregazione per un beffardo e crudele rovesciamento delle parti. Il bipolarismo della Chiesa, guidata da una scientifica necessità di conservazione del potere e del proprio ruolo, viene diviso tra le attitudini punitive, vessillo di un ascetismo malato, incarnate dalla Madre Superiore dell’istituto (Carole Trevoux) e quelle dello stesso Fontenaille, le cui malcelate pulsioni sessuali e il dandismo estetizzante, dialogano con l’anti-erotismo della suora su un terreno comune, quello della trasformazione di un conflitto di origini sociali ed economiche, in una questione di differenza e superiorità etnica.
Aderisce allora al senso più profondo del romanzo, il film di Rahimi, cercando le ragioni attraverso le interazioni, nello scambio feroce di battute, nella definizione di simboli antitetici e nella scelta, del tutto personale, di alimentare quello scambio di senso tra realtà mitica ed eventi, già caratterizzato dal prologo.
Diviso in quattro parti (Innocenza, Sacro, Sacrilegio, Sacrificio), sdipana le stazioni di un calvario sviluppando empatia e vicinanza ai dissidi delle giovani studentesse, ma allo stesso tempo creando un forte distacco emotivo con l’uso insistito del ralenti e alcuni riferimenti troppo espliciti, come la lotta di cuscini nel dormitorio desunta da “Zéro de conduite”, quasi per neutralizzare qualsiasi istanza rivoluzionaria di quelle immagini, con l’iconizzazione del gesto nello spazio della norma assoluta, la stessa che contribuisce alla creazione di una élite in un paese dilaniato dalle differenze sociali. Più che una citazione, un rovescio negativo e inerte dell’anarchia, anche compositiva, di Jean Vigo.
Questa distanza è confermata da altri due aspetti; il Jazz occidentale che guarda verso l’Africa composto da Aldo Romano e Louis Sclavis, che costituisce parte della colonna sonora del film e la fotografia digitale in 6k di Thierry Arbogast, realizzata a basso budget con l’ausilio di macchine Sony Venice. Orientata alla ricerca della luce naturale e alle dominanti cromatiche della natura, in contrasto con il nero della pelle, il bianco delle uniformi, ma anche a restituire la violenza solare della natura incontaminata che insidia il rigore dell’edificio ecclesiastico, ci è sembrata sin troppo precisa, geometrica, anche nelle potenti scene del massacro, realizzate da una parte con intenzioni sottrattive da Rahimi, ma poi ricondotte dalle parti di un’estetica visuale molto marcata e presente.
Presente la sensazione che la materia incandescente e polisemica del romanzo di Scholastique Mukasonga venga a tratti addomesticata da un film che vola sopra la cultura ruandese, nonostante “Notre-Dame du Nil” sia opera interessante e capace di raccontare le origini culturali di un genocidio con una prospettiva che torna dalla parte delle donne, come rifondazione politica e semiotica dello sguardo.