Mentre Keiichi Suzuki continua ad esplorare minimalismo e musica popolare per il nuovo film di Pengfei, in concorso qui a Venezia alle Giornate Degli Autori, con Takeshi Kitano sceglie una via meno conciliante, recuperando la sperimentazione elettronica degli esordi e combinandola con i movimenti fratti di un Jazzin’ sottopelle, decostruito e dadaista.
Nessuna lusinga melodica né alcuna possibilità di riferirsi ad un tema che abbia una qualche connessione mnestica con le immagini, quasi ci si spingesse alle origini della musica elettronica per lo schermo, quella di Bebe e Louis Barron.
Una nota isolata di piano, un drone che rimane fisso come traccia residuale di un genere.
Kitano sceglie deliberatamente questa via insieme al grande compositore giapponese per uno dei suoi film più ipnotici e astratti, dove la cornice poetica ed evocativa delle immagini viene ridotta quasi a zero, essiccata in quello che rimane di una prassi ellittica: un pesce ferito, una testa che emerge da una sepoltura letale, la scomposizione dell’azione fino all’ossatura, con un doppio movimento che concentra e allenta la tensione, per poi disintegrarla in un labirinto dialogico che punta alla desolazione.
Kitano non scivola mai nella calligrafia o nell’imitazione di se stesso, a rischio di suicidare qualsiasi aspettativa e di chiudere bruscamente uno dei cicli della sua carriera, come era accaduto con altri titoli definitivi.
In una sorta di radiografia estrema della filmografia di Kinji Fukasaku, anche nelle scelte cromatiche del fedele Katsumi Yanagijima orientate ad una forte desaturazione, la dimensione pittorica viene ridotta per quanto riguarda lo spettro cromatico, puntando maggiormente ad una sorta di ritrattistica costituita da maschere fuori dal tempo, come quella dolentissima di Tokio Kaneda, imprigionato in un meccanismo che ha cancellato la prassi delle vecchie gang e ha reso autistico il suo incedere.
Outrage: Coda determina le conseguenze di una legge del desiderio che ha disintegrato l’oggetto del contendere, dove la lotta per la sopravvivenza è orientata all’affermazione di un individualismo estremo. Otomo (Takeshi Kitano) è ormai una macchina celibe e pur conservando un barlume irriducibile di fratellanza in quella scena di pesca recuperata sui titoli di coda come una “reverie” senza ormai alcun sognatore, rimane ancorato all’espressione istintiva del ruolo, un compito da portare a termine per un “gangster fuori moda”. L’odore e il colore del sangue affiorano nuovamente nella scelta di un gesto estremo, un’uscita di scena che è anche fuga da un mondo disumanizzato, atto di resistenza definitivo.